Per mettere a fuoco il ragionamento che abbiamo fin qui cercato di sviluppare, abbiamo posto a Paolo Cucchiarelli alcune domande.
Cucchiarelli, in generale le reazioni dei colleghi della carta stampata alla pubblicazione del suo libro (“Il segreto di Piazza Fontana”, Ponte alle Grazie, maggio 2009) sono state a mio avviso per numero e qualità molto al di sotto di quanto il suo lavoro avrebbe meritato.
A suo avviso quali sono stati i motivi della coltre di silenzio stesa intorno al libro?
«È una inchiesta “poderosa” (l’aggettivo più usato) e difficile. Non tocca a me dire che è anche scomoda. Certo si pone in maniera inusitata rispetto alla tradizione delle inchieste nel nostro Paese. Dire che la sinistra su Valpreda ha sbagliato (e che tanti lo sapevano) e allo stesso tempo spiegare come, perché e con quali responsabilità muore Pino Pinelli e adombrare che l’omicidio Calabresi può avere avuto “compartecipazioni” diverse (Omicidio derivativo) non porta simpatie. Ho spiegato nel libro che in Italia i misteri sono in gran parte frutto di una sorta di contrattazione tra più soggetti. Un libro che si pone l’obiettivo di scompaginare questo presunto mistero su base documentale e facendosi guidare solo dalla rigorosa ricerca di quello che i fatti ci dicono è in parte votato a non avere una vita facile. Il libro fa male. Meglio non parlarne. È stata una scelta alla fine ovvia. Ad esempio il silenzio di Sofri e le “punzecchiature” di tanti epigoni in sedicesimo. Il momento più bello è stato il pomeriggio passato a casa di Licia Pinelli che non ha avuto nulla da ridire né sulla tesi esposta nel libro, né sulleconclusioni che avanzo sulla morte del marito. Quello è stato il capitolo che più mi è costato in termini di fatica ma anche quello a cui tengo di più».
Mi sembra oltretutto che a sinistra la tesi che emerge dalla sua ricerca non sia per nulla piaciuta. Probabilmente se lo aspettava, ma a quarant’anni da quelle vicende forse si poteva anche credere che certe rigidità ideologiche si fossero attenuate. Quali sono le critiche che più l’hanno infastidita?
«Non ci sono state critiche del tipo a pagina 207, 302, 408 ecc. lei ha scritto una cazzata. No. Il ritornello, tranne qualche eccezione, è stato: è un libro che non ci piace. E basta. Nessuno ha fatto una critica credibile alle 560 note della inchiesta. Anzi qualcuno se mi incontra per strada ora, dopo averlo letto, fa di tutto per non incrociarmi».
È vero però che la rete in parte ha supplito, sostituendo e aggirando il silenzio dei media tradizionali. Un esempio per tutti: la tribuna aperta al dibattito sulla sua ricerca decennale creata su Facebook da Manlio Costronuovo (http://www.facebook.com/group.php?gid=111480141059&ref=nf).
Questo lei lo ritiene sufficiente? Vuole fare qualche considerazione sulle potenzialità ed eventualmente sui limiti che questa nuova opportunità offre?
«Manlio è stato un grande amico. Ha organizzato lui il gruppo di discussione e lo ha seguito. Io ho risposto punto per punto, paragrafo per paragrafo anche a chi mi ha definito Dan Brown della sinistra e peggio ancora autore di un libro ad orologeria (una carica molto lunga visto che la ricerca e la stesura sono durate all’incirca 10 anni). Non c’è l’abitudine ad un certo tipo di giornalismo in Italia. Ho cercato di supplire partendo da una delle grandi icone del “mistero”. Il risultato ognuno lo può valutare. Certo è che subito dopo l’uscita del libro sono stato interrogato dai magistrati di Brescia e da quelli di Milano (Spataro, Meroni, Pradella) che hanno riaperto un fascicolo anche per sollecitazioni venute da un rapporto dei carabinieri e dalle istanze presentate dall’avvocato che rappresenta l’associazione dei familiari delle vittime. Mi aspetto ancora sviluppi, se la magistratura avrà voglia di indagare».
Lei nelle conclusioni del suo libro sostiene che “motivazioni personali o politiche, logiche e responsabilità diverse hanno finito per convergere, spesso da direzioni opposte, nel far condividere la scelta del silenzio. È d’altronde la tacita contrattazione il male principale d’Italia”. Nella bella intervista che ha rilasciato a Manlio Castronuovo sul blog Vuotoaperdere (11 dicembre 2009), lei ha espresso un concetto che mi sento di condividere totalmente, ovvero che per giungere finalmente alle verità si debba “far saltare la torta”. Lei crede che questa torta riguardi solo la strage di piazza Fontana o anche altre stragi che hanno insanguinato la nostra recente storia repubblicana? Se sì, quali secondo lei hanno visto responsabilità trasversali e quindi ricatti latenti che non hanno consentito di giungere ancora ad una verità, tantomeno condivisa?
«Molte stragi, grandi fatti, come il caso Moro. L’Italia è un paese tendenzialmente omertoso che non ha la forza, la voglia e il coraggio di reggersi sulle sue gambe. Credo che ci sia molto ancora da raccontare. Spero di continuare».
A pagina 293 del suo libro lei scrive: “Una inchiesta non approda a conclusioni comprovate ma scandaglia piste che non sono state seguite, suggerisce nuove ipotesi, verità diverse da quelle codificate. Verificarlo tocca a chi ha questo potere”. Lei crede che questo suo lavoro possa riaprire l’inchiesta e dunque attivare nuove ricerche da parte degli organi competenti o pensa che resterà un lavoro “puramente” storico?
«Come detto un fascicolo è aperto a Milano e si sta scandagliando l’ipotesi della doppia bomba anche a Brescia. Una ipotesi che potrebbe spiegare tanto di quella strage. Io ho cercato di interpretare il giornalismo in un certo modo, fornendo una onesta ricostruzione dei fatti e senza sconti (anche se dichiaro la mia estrazione di sinistra citando Pasolini e Sciascia) per nessuno. Questo è il compito del giornalismo di inchiesta anche su un crinale scivoloso e ben difficile come quello delle stragi e del terrorismo».
Spesso in passato, giornalisti coraggiosi che hanno provato come lei ad affrontare a mente aperta i cosiddetti “misteri d’Italia”, ove lei giustamente fa notare che tali sono solo perché sopravvivono certi segreti, hanno pagato “professionalmente” la loro voglia di verità. Penso a Pietro Zullino di «Epoca» e alla sua inchiesta sulla strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973, o recentemente all’atto di contrizione cui è stato costretto Andrea Colombo per le sue posizioni circa la strage di Bologna («il manifesto», 16 luglio 2009). Crede che anche il suo lavoro possa rientrare in questa scomoda categoria?
«Non tocca a me dirlo. Io mi sono rivolto ai lettori. L’unico vero interlocutore di chi scrive un libro. Ho avuto tanti incoraggiamenti proprio da loro e questi mi hanno aiutato a vivere questo passaggio. Li ringrazio.
Spero che la magistratura abbia la voglia di indagare perché certi fatti non sono ancora argomenti per gli storici (lo faranno poi?) e il loro peso sulla nostra vita è ancora molto forte. Ben più di quello che si voglia raccontare. Il periodo che viviamo si è aperto con due stragi nel 1980. Da lì bisogna iniziare se si vuole capire da dove nasce la realtà che siamo costretti a vivere. Ecco perché bisogna continuare a svelare i cosiddetti “misteri” che altro non sono che “segreti condivisi”».
Per concludere, dopo aver ringraziato Paolo Cucchiarelli, ci sentiamo di sottoscrivere totalmente quanto scrive Adriano Prosperi, auspicando che in un futuro non troppo lontano tutti noi si abbia il coraggio di lasciare da parte cieche convinzioni e casacche di qualsiasi colore, in nome della verità e di una convivenza più sana e limpida.
«Un sistema democratico non ha paura della verità, al contrario: ne vive. La verità storica e politica rende più liberi, rafforza la vita civile» (Adriano Prosperi, Il Kgb e i dossier della vendetta, «la Repubblica», 4 dicembre 2009).
Pillole di Giornalismo
Nella rubrica WatchDog cerco di scovare, analizzare e denunciare le omissioni, le storture del giornalismo nostrano. Lo scenario che emerge può apparire desolante e sconfortante. Indurre al pessimismo. Ma certamente esistono anche giornalisti impegnati nel loro delicato e fondamentale compito di informare con onestà e serietà. Almeno a parole. Ma sappiamo anche che le parole possono essere pietre e allora vorrei chiudere con qualche frase che richiami i valori più puri della professione. Qualche parola che ci aiuti a credere che un Giornalismo migliore sia possibile; un Giornalismo insomma con la G maiuscola.
«Ma solo una società “bene informata” può aspirare alla condizione di opinione pubblica; accondiscendere a una rappresentazione manipolatoria della complessità della realtà, è il tradimento del giornalismo» (Mimmo Candito, Il Pulitzer sdogana internet, «La Stampa», 13 dicembre 2009).