Da Pier Paolo Pasolini a Gian Adelio Maletti e Guido Salvini

Venerdì 12 Dicembre 1969, alle 16:37, a Milano, una bomba esplose nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, a piazza Fontana, facendo 17 morti e 88 feriti.
Oggi, a cinquant’anni di distanza, dopo un’infinita e contorta cronaca giudiziaria che si è trascinata per tutta la Penisola e che si è conclusa nel maggio 2005 con l’individuazione di Carlo Digilio quale esecutore materiale, la possiamo considerare come un evento fondamentale della storia italiana del Novecento.

“La strage di piazza Fontana è il nostro 11 settembre”, scrive Paolo Biondani nella prefazione al libro scritto da tre giovani giornalisti, Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato e intitolato “Piazza Fontana, noi sapevamo / Golpe e Stragi di Stato / Le verità del generale Maletti”.

In effetti oggi l’Italia è una nazione molto forte sul piano della sicurezza, e non deve certo al caso se è l’unico grande Paese a non aver conosciuto sul proprio territorio attentati di matrice islamica, quasi che i lunghi anni delle Stragi l’abbiano vaccinata.

Ma fino ad una trentina d’anni fa è stata il ventre molle dell’Europa e, come altre volte nel corso della Storia, un laboratorio politico per gli altri Stati.

La Strage di piazza Fontana è dunque il nostro 11 Settembre perché dà inizio a quella Strategia della tensione, preconizzata qualche giorno prima dell’attentato dall’Observer, che doveva servire ad arginare l’avanzata elettorale del partito comunista più grande d’Europa e a mantenere anche con la forza la nostra nazione “colonia” di Stati Uniti e Inghilterra sotto l’aspetto militare, politico, economico e culturale.

Preceduta dallo sconvolgimento sociale cominciato nell’Occidente con il 1968, che in Italia si sarebbe prolungato fino al 1977, e dall'”autunno caldo” promosso dai Sindacati, la Strage di piazza Fontana rientra appunto in quel contesto ed anzi apre quel periodo storico, che durò almeno fino ad un’altra strage, quella, più spaventosa di tutte, alla Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980, con 85 o 86 morti – nemmeno questo è ancora certo! – e 200 feriti.

“Destabilizzare per stabilizzare”: “la linea terroristica veniva eseguita da infiltrati – spiegherà Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per la Strage di Peteano -, da persone che stavano all’interno degli apparati di sicurezza dello Stato. Dico che ogni singolo scandalo, a partire dal 1969, ben si adatta a una matrice organizzata: non parliamo di elementi deviati, ma dello Stato e dell’Alleanza atlantica”.

Lo conferma dalla sua latitanza in Sudafrica, nel succitato libro intervista, il generale Gian Adelio Maletti, capo dell’ufficio D del SID dal 1971 al 1975, unico condannato, per favoreggiamento, con il capitano Antonio Labruna, nel 1979 nel processo di Catanzaro sulla Strage. Maletti ha 98 anni, e la sua intervista risale a ben dieci anni fa.
Il generale si concede amabilmente ai suoi tre giovani interlocutori per una lunghissima intervista registrata nel suo appartamento in un quartiere residenziale di Johannesburg.
Già nei rapidi contatti preliminari via mail aveva stabilito come sarebbe andato il colloquio e fin dove si sarebbe spinto con le sue rivelazioni: era, sì, disposto a farne, ma neanche stavolta a dire tutto quello che sapeva, perché tra mandanti ed esecutori c’erano persone ancora vive: dunque ci sarebbero stati degli omissis…
Il quadro è comunque di una gravità eccezionale. Dietro la Strage c’erano gli Stati Uniti e il loro Presidente in persona, Richard Nixon, che manteneva in questo modo un impegno in chiave anticomunista preso al Quirinale alcuni mesi prima, quando era stato ricevuto dal Presidente Giuseppe Saragat.

L’esplosivo, trinitrotoluene o trotil, con il quale era stata fabbricata la bomba e che era stato messo a disposizione dei neonazisti Franco Freda e Giovanni Ventura, proveniva da un deposito americano in Germania.

Le bombe del 12 Dicembre erano state in realtà cinque: a Milano ce n’era un’altra, inesplosa, alla Banca commerciale Italiana a piazza della Scala, mentre a Roma ne erano scoppiate tre, quasi contemporaneamente, alla Banca nazionale del lavoro di via Veneto, all’Altare della Patria e al museo del Risorgimento, a piazza Venezia, facendo 17 feriti.

L’attentato di piazza Fontana era poi l’epilogo di una lunga serie di attentati dimostrativi, che avevano fatto in tutto 32 feriti, cominciata l’11 Aprile di quello stesso anno al palazzo della Regione di Trento e proseguita il 15 al rettorato dell’Università di Padova, il 25 a Milano, con due ordigni all’ufficio cambi alla Stazione Centrale e alla Fiera campionaria, il 12 Maggio, con tre bombe inesplose nei palazzi di giustizia di Roma, Milano e Torino, il 24 Luglio con un altro ordigno inesploso al tribunale di Milano e l’8 Agosto con dieci bombe sui treni in tutta Italia.

Tutti questi attentati, compreso quello alla Banca dell’Agricoltura, erano stati eseguiti dalla stessa mano: i neonazisti veneti di Ordine nuovo, e nel 1987 Freda e Ventura, che non potevano più essere riprocessati per piazza Fontana in quanto assolti nel precedente processo, furono condannati in via definitiva a quindici anni di carcere per gli attentati del 25 Aprile e dell’8 Agosto.

“Gli americani non volevano la strage – afferma molto discutibilmente Maletti -. La strage è avvenuta per caso, per disguido, per errato calcolo dei tempi. La banca era aperta, l’ora era sbagliata e le transazioni erano ancora in corso. La bomba, almeno nelle intenzioni, doveva essere quasi innocua. Non si trattò di un’azione militare, ma di una mossa psicologica, politica”. Lascia anche capire di conoscere i nomi dei quattro esecutori materiali dell’attentato: “due dentro la banca e due fuori”.

Quel che più conta, comunque, è la terza istruttoria su questa strage, cominciata al Tribunale di Milano alla fine degli anni Ottanta ad opera del giudice Guido Salvini e finita con le sentenze del 2005. Anche se si è conclusa senza imputati perseguibili, è fondamentale per la ricostruzione degli avvenimenti storici, che assume finalmente un aspetto definitivo, nonostante gli ostacoli nei quali si è dovuta imbattere e che provenivano, ancora una volta, dalla stessa magistratura.

A processo chiuso, mosso da un’inesauribile passione per la ricerca della verità, Guido Salvini, allo stesso modo di quanto ha fatto il suo collega Carlo Palermo, ha proseguito l’indagine in proprio e a proprie spese, facendo anche lui confluire tutti i preziosi documenti raccolti nel corso di decenni di indagini, nel sito internet che porta il suo nome.

Non solo: nei giorni scorsi è uscito il suo voluminoso saggio, scritto in collaborazione con lo stesso  Andrea Sceresini, intitolato “La maledizione di piazza Fontana. L’indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati” (Chiarelettere).

“Se un nuovo processo venisse celebrato oggi, sommando quello che è emerso in tutti i processi e gli elementi contenuti in questo libro, è probabile che i responsabili della strage avrebbero tutti o quasi un nome”, garantisce Salvini.

Questa la verità, cinquant’anni dopo. Ma in quel tormentato decennio il genio di un poeta, che all’indomani della strage aveva già scritto Patmos, aveva già visto tutto: Pier Paolo Pasolini, coscienza critica del secondo Novecento.

Giancarlo De Palo