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Martedì 24 settembre 2013, alle ore 10 presso la Sala Nassyria del Senato, verrà presentato un disegno di legge per istituire una commissione bicamerale d’inchiesta “sul Caso Moro e sul fenomeno del terrorismo in Italia negli anni 1969-1985”. I primi firmatari sono i senatori Luigi Compagna (Gruppo Gal) e Miguel Gotor (Gruppo Pd).

L’iniziativa è stata anticipata il 10 settembre e annunciata al Senato nella seduta pomeridiana del giorno dopo, 11 settembre.

La proposta del senatore Compagna arriva poco più di un mese dopo un’analoga iniziativa (del 5 agosto, che vede come primo firmatario il deputato del Pd Giuseppe Fioroni) recante, appunto, la proposta di istituzione di una Commissione Parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Incredibilmente, però, quella proposta d’inchiesta parlamentare è stata studiata per essere monocamerale, e cioè affidata soltanto alla Camera dei Deputati, escludendo così il Senato da ogni attività istruttoria.

Non solo uno strappo istituzionale incomprensibile, ma un macroscopico errore politico, quello di pensare a una nuova Commissione d’inchiesta sul caso Moro e sul terrorismo in Italia, perché – storicamente – le inchieste parlamentari (a partire proprio dalla prima Commissione Moro, che iniziò i suoi lavori alla fine del 1979, in piena Guerra Fredda), quando devono trattare argomenti di particolare importanza e rilevanza per la vita politica e sociale del Paese, sono state sempre affidate a organismi bicamerali, proprio per rispettare gli equilibri politico-istituzionali del Parlamento e per offrire la più ampia e autorevole rappresentanza fra le forze politiche presenti nelle aule di Camera e Senato.

Questa volta, però, qualcuno ha tentato un vero e proprio colpo di mano estivo. Come diceva Giulio Andreotti, cresciuto nei sulfurei cortili del potere pontificio-ecclesiastico, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca e così prende corpo il sospetto che dietro il blitz del viterbese Fioroni ci sia un disegno ben preciso volto a mantenere i futuri lavori di una nuova Commissione d’inchiesta non solo in un ambito ristretto, ma soprattutto a giungere più o meno rapidamente a conclusioni (già scritte) di parte, ideologicamente orientate su teoremi e luoghi comuni preconfezionati – tenuti al sicuro da dibattiti fastidiosi e da sgradite verifiche storiografiche – in cui alla base del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro debba “necessariamente” emergere una sola verità politica e cioè la tesi del presunto coinvolgimento della cosiddetta eversione atlantica, con la massima complicità delle potenze occidentali manovrate dagli Stati Uniti (in chiave anticomunista), della Cia, della massoneria, del Vaticano, della mafia, dei soliti servizi segreti deviati.

Ecco perché l’iniziativa assunta dal senatore Compagna è interessante e va seguita con estrema attenzione: una Commissione d’inchiesta bicamerale, infatti, integra, corregge e subentra all’idea di un organismo monocamerale affidato, limitato e circoscritto alla Camera dei Deputati, garantendo ben più ampi margini di democrazia, confronto e ricerca.

Oggi, d’altra parte, ci sono forse le condizioni per un approfondimento serio che non parta da preconcetti e teoremi risalenti agli anni della Guerra Fredda, ma che permetta di sondare e analizzare tutti i contesti che intervennero in quella vicenda e più in generale nel fenomeno terroristico e proprio per questo la sede politico-parlamentare deve essere la più ampia possibile.

Ma perché istituire un’ennesima Commissione parlamentare d’inchiesta su fatti vecchi di oltre trent’anni?

In realtà, gli anni Settanta hanno rappresentato per la Repubblica italiana uno snodo storico, politico e sociale senza precedenti e mai indagato e compreso fino in fondo. Nel nostro Paese lo scontro tra modelli di sviluppo e ideologie, assunse in quegli anni connotazioni che non si presentarono in nessun altro Paese occidentale democratico. L’Italia, sia per la sua posizione geografica – confine tra Est e Ovest, ma anche tra Nord e Sud del mondo – sia per le particolari condizioni politiche – una nazione inserita nel settore atlantico dello scacchiere, ma con il più grande partito comunista dell’Occidente, partito che nel dopoguerra per almeno vent’anni s’ispirò esplicitamente al sistema socialista realizzato – è stata luogo ideale di conflitti, di elaborazioni, di scontro.

In nessun altro Paese europeo il fenomeno terroristico ha assunto le forme e le gravità raggiunte in Italia. Una vasta e multiforme galassia in cui formazioni di estrema sinistra e di estrema destra si scontravano quotidianamente per le strade e nelle piazze. Entità mai compiutamente individuate mettevano in atto strategie stragiste colpendo in modo indiscriminato. Gruppi organizzati attuavano lucidi progetti per colpire il regime sequestrando, ferendo e uccidendo onesti servitori dello Stato, poliziotti, carabinieri, magistrati, politici, giornalisti, sindacalisti.

Le istituzioni democratiche alla fine ebbero la meglio. Il nostro Paese pur tra mille difficoltà è riuscito in qualche modo a mantenere un ruolo di primo piano nel consesso civile e democratico mondiale, ma all’interno una pacificazione non è mai stata possibile poiché una memoria e una storia condivise, questo Paese non è mai riuscito a darsele. Per molti decenni, dal dopoguerra fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Italia è stato un Paese fondamentalmente comunista condannato a vivere nel blocco occidentale. Da questa drammatica contraddizione sono nati molti dei grandi e dei cronici problemi che hanno costellato e afflitto la nostra vita nazionale, con pesanti strascichi anche nel presente. Il caso Moro, da questo punto di vista, è una sorta di vicenda emblematica delle grandi contraddizioni che hanno segnato la storia del nostro Paese e sulla quale – obiettivamente – c’è ancora tanto da cercare, investigare e scoprire.

Quando negli scorsi decenni, altre Commissioni parlamentari d’inchiesta hanno cercato di fare luce su questi fenomeni, le condizioni storiche, sociali e politiche non erano ancora tali da consentire il raggiungimento di un risultato soddisfacente, credibile e sufficientemente resistente alla verifica scientifica e alla prova del tempo.

Oggi lo scenario è molto diverso. Il tempo trascorso, ha raffreddato inesorabilmente le passioni e molti dei protagonisti di allora se ne sono andati o hanno elaborato e smussato il loro carico d’intransigenza ideologica. Nel frattempo anche il mondo è cambiato, sia dal punto di vista politico, sociale e soprattutto dal punto di vista tecnologico.

Sono crollati muri che tennero l’Europa e il mondo diviso e contrapposto per quarant’anni, si sono diffuse innovazioni che hanno modificato e stravolto le abitudini e scardinato la rigidità e la solidità di sistemi per troppo tempo inscalfibili.

Ecco allora che tornare oggi a indagare su fatti accaduti anche trenta o quarant’anni fa non è per nulla un esercizio sterile. Oggi è possibile accedere a documenti e ad archivi che solo pochi anni fa erano inaccessibili. Si pensi agli archivi delle polizie segrete dei Paesi ex socialisti, o anche a quelli di Paesi occidentali resi disponibili per la decadenza dei termini temporali. Nel frattempo anche i paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo hanno conosciuto turbolenti sconvolgimenti politici che potrebbero consentire l’accesso ad informazioni fino ad oggi mantenute segrete.

La tecnologia poi, con la diffusione di strumenti informatici sempre più performanti, ha permesso, ad esempio, la digitalizzazione di milioni di documenti e atti, frutto di attività giudiziarie e d’indagine, rendendoli in tal modo facilmente disponibili e consultabili, permettendo riscontri e verifiche un tempo tecnicamente impossibili.

Ecco dunque l’utilità (per non dire la necessità) di istituire una Commissione parlamentare che proprio per le nuove ampie e promettenti opportunità di cui si trova a disporre, non può non investire l’intero Parlamento repubblicano. Camera e Senato insieme, ovvero i rappresentanti dell’intero popolo italiano, per cercare finalmente di dare risposte risolutive e finali alle tante domande rimaste inevase per decenni, per fare luce sulle tante zone d’ombra ancora presenti.

Gabriele Paradisi e Gian Paolo Pelizzaro