romano-prodi-2«Presidente Prodi, mi corre l’obbligo di dirle che noi sappiamo che i piattini non si muovono, non si sono mai mossi e mai si muoveranno e che quindi questa versione sulla quale lei insiste, a parere mio e a parere di qualsiasi persona dotata di buonsenso, va presa per quello che è. I piattini non si muovono. Non esiste». Era il 5 aprile 2004 e il senatore Paolo Guzzanti, presidente dalla Commissione Mitrokhin, così incalzava il professor Romano Prodi nell’audizione che si svolse durante la 58a seduta di quella Commissione bicamerale d’inchiesta. Non era la prima volta che l’allora presidente della Commissione europea si trovava a sostenere un fuoco incrociato di domande in una sede istituzionale. Era già accaduto il 10 giugno 1981 in Commissione Moro, quando dovette ammettere che: «In questa situazione […] mi sento estremamente imbarazzato ed estremamente ridicolo». Ma cos’era successo al professore bolognese di tanto increscioso da dover rendere conto per ben due volte a organismi parlamentari d’inchiesta? Per capirlo è necessario ripercorrere, ancora una volta, la vicenda fin dal principio ovvero dal pomeriggio di domenica 2 aprile 1978, evitando le imprecisioni, gli errori, gli equivoci e i fraintendimenti che costellano le innumerevoli narrazioni che si sono susseguite in questi 35 anni. Da un paio di settimane il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro era prigioniero delle Brigate rosse, che l’avevano sequestrato il 16 marzo nell’agguato di via Fani a Roma dopo aver annientato la sua scorta composta da cinque uomini. Quella domenica d’aprile a Bologna e dintorni la primavera era ancora incerta, il cielo nuvoloso. A Zappolino, circa 30 chilometri dal centro città, in un casolare di proprietà di Alberto Clò, s’incontrarono 12 conoscenti alcuni dei quali professori universitari, con figli al seguito. Oltre a cinque bambini, Romano Prodi e sua moglie Flavia Franzoni, Fabio Gobbo, Mario Baldassarri con la moglie di allora Gabriella Sagrati, la cugina della medesima Emilia Fanciulli, Adriana Grechi, Alberto e Carlo Clò, Licia Stecca, Francesco e Gabriella Bernardi. Secondo i convenuti quel giorno pioveva e, dopo una salsicciata, «per ingannare la noia c’è chi escogita per gioco una seduta spiritica». È importante il ruolo della pioggia che, non permettendo di svolgere all’esterno nessuna attività, spinse i commensali a improvvisare quel gioco così estemporaneo. Prodi, nell’audizione in Commissione Moro del 10 giugno 1981, farà verbalizzare queste precise parole: «In un giorno di pioggia in campagna […] dovete pensare che tutto questo [il gioco della seduta spiritica] è avvenuto in campagna, durante tre quattro ore di pioggia, mentre i bambini andavano e venivano». Ma è proprio vero che in quella zona nei dintorni di Bologna, il pomeriggio del 2 aprile 1978, pioveva? A quanto pare no. Caddero solo poche gocce (0.2 millimetri) intorno alle 14, a più di sei chilometri in linea d’aria dal casolare, mentre, sempre stando al racconto dei partecipanti, la seduta non era iniziata prima delle quindici e trenta. Il giornalista e ricercatore Antonio Selvatici l’ha scoperto, recuperando i dati forniti dal Ministero dei Lavori pubblici – servizio idrografico, relativi alle stazioni pluviometriche dei paesi che circondano Zappolino, vale a dire Montepastore (due chilometri a sud-est), Monte San Pietro (appena ad un chilometro e duecento metri dal casolare di Clò) e Montombraro (cinque chilometri a sud-est). Selvatici ha pubblicato questa sua ricerca nel 2000 in Prodeide, l’introvabile biografia non autorizzata di Romano Prodi, presto diventata un samizdat dell’editoria contemporanea. Dunque la pioggia (che però non c’è mai stata) e la noia conseguente, indussero i 12 convenuti ad intraprendere la seduta spiritica. Occorre ricordare che dalle dichiarazioni di tutti i partecipanti, nessuno di loro era un medium, mai aveva fatto precedentemente sedute spiritiche e mai ne farà in seguito. Comunque sia, gli amici bolognesi decisero di “interrogare” gli spiriti di don Luigi Sturzo (1871-1959) e di Giorgio La Pira (1904-1977) nella speranza di ricevere dall’aldilà qualche informazione che aiutasse a scoprire qualcosa per localizzare la prigione di Aldo Moro. Sembrerà incredibile ma, mentre don Sturzo non collaborò per nulla, La Pira, nello stupore degli improvvisati partecipanti a quella “riunione parapsicologica”, si mostrò molto disponibile e loquace, fornendo loro un’indicazione preziosissima. Infatti il piattino da caffè utilizzato nella circostanza, nel suo vorticare sul foglio sopra il quale erano state riportate lettere e numeri, indicò alcune parole di senso compiuto, nomi di località note come «Viterbo», «Bolsena», e un nome ignoto a tutti: Gradoli. Nessuno l’aveva mai sentito nominare prima di allora, ma dispiegata una cartina geografica sul tavolino, il “sapiente” piattino si fermò nella parte corrispondente alla località Gradoli. Ciò secondo quanto lo stesso Prodi dichiarò all’allora giudice istruttore Francesco Amato il 22 dicembre 1978 (Commissione Moro, vol. 42, pp. 441-442). A questo punto fu proprio Romano Prodi ad assumersi la responsabilità di far trapelare quella rivelazione. Nella primavera del 1978 Prodi aveva 38 anni, era presidente della Società Editrice Il Mulino ed era professore di Economia politica e industriale all’Università di Bologna. Dal 1963 era assistente di Beniamino Andreatta, il quale era stato all’inizio degli anni Settanta consigliere finanziario del governo di centrosinistra presieduto da Aldo Moro. È così allora che lunedì 3 aprile 1978, Prodi, in occasione di un consiglio di facoltà, decise di parlare di quanto era avvenuto il pomeriggio precedente ai colleghi universitari. In particolare egli cercò di coinvolgere il criminologoAugusto Balloni. Questo il racconto del protagonista intervistato da Cristiano Ravarino: «Romano Prodi è una persona anche capace di pensare che i suoi stessi colleghi siano dei poveri idioti. Allora, durante il sequestro Moro, eravamo ambedue docenti a Scienze Politiche. Lui di economia io di criminologia. Qualcuno, qualcosa, doveva avergli dato la prova di essere in contatto con Moro indicandogli la sede della prigionia perché arrivò sconvolto in Facoltà e ne parlò con tutti ripeto tutti i colleghi. Poi, con una impudenza che non ho scordato, si rivolse a me e disse: “Tu sei criminologo di fama. Vai dai magistrati e parla di questa cosa di Gradoli. Però non ti permetto di citarmi come fonte”. “Al massimo andrò a S. Isaia dai matti”. Gli ribattei. Ma come si può ipotizzare che io vada da un magistrato per una cosa così spaventosamente delicata citando una fonte che vuole restare anonima, che cita un’altra fonte che non si sa chi sia? Certo, quando poi, tempo dopo, scoprii che era tutto vero rimasi letteralmente traumatizzato. Anche perché, no, dico, con tutti i rapporti che aveva Prodi anche allora a tutti i livelli aveva bisogno di mandare allo sbaraglio me?» (Francis Bacon. L’urlo della memoria. I misteri, i disegni, le stragi, nelle interviste di Cristiano Ravarino, Edizioni Synergon, Bologna, 1996). Andato a vuoto questo maldestro tentativo di scaricare su un terzo l’onere della rivelazione, Prodi, recatosi il giorno successivo a Roma – a suo dire per un convegno –  si incontrò in piazza del Gesù, sede storica della Democrazia cristiana, con Umberto Cavina, che era il capo ufficio stampa del segretario della Dc Benigno Zaccagnini, e a lui confidò la soffiata di La Pira. prodi-internosdsProbabilmente lo stesso 4 aprile Cavina riferì telefonicamente la rivelazione di Prodi a Luigi Zanda, addetto al gabinetto del Ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Zanda il 5 aprile annotò a penna su un foglio l’appunto che recitava testualmente: «lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina» (Commissione Moro, vol. 27, p. 33). A leggere l’appunto di Zanda – che è il primo e più importante documento disponibile in questa vicenda – ci si rende conto che lo “spirito” aveva fornito molte più informazioni rispetto al semplice nome di Gradoli. Come un piattino possa aver tratteggiato un’indicazione così articolata e precisa (con il numero della strada statale e la tipologia dell’edificio da prendere in considerazione), passando da una lettera ad un’altra su un foglio, resta un mistero. Quello stesso giorno, Zanda avvertì per telefono e poi consegnò al capo della Polizia Giuseppe Parlato l’appunto con le rivelazioni fornite da Cavina. Infine il 6 aprile alle ore 11,30, agli ordini del vice questore di Viterbo, di un funzionario dell’Ucigos e del tenente dei carabinieri comandante la Tenenza di Tuscania, 22 uomini tra guardie di pubblica sicurezza e carabinieri, eseguirono un accurato rastrellamento ispezionando case coloniche in stato di apparente abbandono, le relative dipendenze, nonché grotte e ripari naturali. La battuta interessò un’area di quattro chilometri quadrati dalla frazione di Cantoniera fino ad un gruppo di casali isolati situati a sud-ovest del paese di Gradoli, il cui abitato, basandosi sulle indicazioni dell’appunto, contrariamente a quanto spesso viene sostenuto, venne del tutto ignorato dalla perquisizione che darà comunque, infine, esito negativo. Il nulla di fatto seguito a quella “rivelazione” avrebbe fatto presto dimenticare questo episodio che sarebbe finito rapidamente nell’oblio. Infatti, il 6 e 7 aprile e nei giorni seguenti,­ diversamente da quanto molti ritengono – le agenzie di stampa, la televisione e i giornali non diffusero alcuna notizia di operazioni delle forze dell’ordine nel territorio del comune di Gradoli alla ricerca della prigione dove era rinchiuso Aldo Moro. Ma il 18 aprile 1978, a Roma, in via Gradoli, una stradina residenziale sulla Cassia dall’andamento ad anello, al numero civico 96 interno 11, scala A, venne scoperta, a causa di una infiltrazione d’acqua, un’importantissima base delle Brigate rosse nella quale abitavano Mario Moretti (alias “Mario Borghi”) e Barbara Balzerani, che però sfuggirono alla cattura. Le prime notizie del rastrellamento effettuato il 6 aprile nell’area del comune di Gradoli trapelarono sui giornali solo il 22 e il 23 aprile, ma senza accenni alla seduta spiritica e a chi vi aveva preso parte. Dunque l’indicazione di Gradoli, che lo spirito di La Pira aveva così generosamente veicolato attraverso gli improvvisati “spiritisti” bolognesi, era tutt’altro che un’informazione priva di valore. Come mai trapelò l’indicazione su «Gradoli», paesino in provincia di Viterbo, invece dell’informazione su «Gradoli», via di Roma sulla Cassia? Il muro di gomma, anzi di cemento armato, innalzato e mai scalfito da quella tragica primavera del 1978 da parte dei protagonisti – Romano Prodi prima di tutto – ha impedito di far luce su questa vicenda, che se gestita in modo più accorto avrebbe potuto portare alla liberazione di Moro. Non è ancora giunta l’ora di liberarsi dai fantasmi di Gradoli?

(continuaFantasmi al colle? – 2a puntata: Liaisons dangereuses

GP e GPP

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Cronologia degli eventi tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978

Giovedì 16 marzo 1978 – a Roma, in via Fani, un commando delle Brigate rosse uccide i cinque uomini della scorta e sequestra il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro.

Domenica 2 aprile 1978 – a Zappolino, circa 30 chilometri da Bologna, nel casolare di campagna del professor Alberto Clò, a detta dei 12 partecipanti, si svolge la seduta spiritica dalla quale emerge l’indicazione del paese di Gradoli (Viterbo) quale luogo dove poteva essere detenuto Moro.

Lunedì 3 aprile 1978 – Università di Bologna, Consiglio di facoltà di Scienze politiche. Prodi condivide coi colleghi l’informazione riguardante «Gradoli».

Martedì 4 aprile 1978 – Prodi si reca a Roma e passa l’informazione su «Gradoli» al portavoce di Benigno Zaccagnini Umberto Cavina, che a sua volta la trasmette a Luigi Zanda, collaboratore del ministro dell’interno Francesco Cossiga.

Martedì 5 aprile 1978 – Zanda trascrive l’informazione e la comunica al capo della Polizia Giuseppe Parlato.

Mercoledì 6 aprile 1978 – viene ispezionata senza esito un’area colonica nei pressi del paese di Gradoli.

Martedì 18 aprile 1978 – grazie ad una perdita di acqua causata da un rubinetto lasciato aperto, quella mattina a Roma viene scoperto il covo brigatista di via Gradoli, dove abitavano Mario Moretti e Barbara Balzerani, che sfuggono alla cattura. Nel pomeriggio, Zanda richiede copia dell’appunto manoscritto che aveva consegnato a Parlato il 5 aprile.

Sabato 22 e domenica 23 aprile 1978 – emergono sui giornali le prime informazioni circa la perquisizione fatta nel comune di Gradoli il 6 aprile, ma senza riferimenti alla seduta spiritica e a chi vi aveva preso parte.

Martedì 9 maggio 1978 – a Roma, in via Caetani, situata a poche centinaia di metri da Botteghe oscure (sede del Pci) e da piazza del Gesù (sede della Dc) – ma non a metà strada, come spesso si è ripetuto – nel bagagliaio di una R4 viene ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro.