Nel 2010, in concomitanza con il trentennale della strage alla stazione di Bologna (2 agosto 1980: 85 morti e oltre 200 feriti), lo scrittore bolognese Loriano Macchiavelli, padre dell’ispettore Sarti, autore di oltre quaranta tra romanzi e raccolte di racconti e noto anche per la fortunata collaborazione letteraria con il cantautore Francesco Guccini, decise di ripubblicare il suo romanzo Strage, uscito nel lontano 1990. In esso l’autore narra la tragedia del 2 agosto, inserendola in un contesto sicuramente di fantasia, ma il racconto contiene anche elementi che suggeriscono letture e spiegazioni alternative alle conclusioni cui sono giunti i magistrati negli anni. Recentemente, come già abbiamo raccontato su SegretidiStato: http://segretidistato.liberoreporter.it/index.php/home/primo-piano/primo-piano/198-le-verita-dellex-brigatista-sandro-padula-sulla-strage-di-bologna-del-2-agosto-1980.html
http://segretidistato.liberoreporter.it/index.php/home/primo-piano/primo-piano/188-brigate-rosse-resistenza-palestinese-e-gruppo-carlos-la-memoria-selettiva-dellex-terrorista-sandro-padula-.html
alcune dichiarazioni del deputato Enzo Raisi, hanno introdotto nuovi interrogativi che curiosamente trovano singolare anticipazione proprio nelle pagine del romanzo di Macchiavelli. Abbiamo così deciso di contattarlo chiedendogli se fosse disposto a rispondere alle nostre domande. Questa l’intervista gentilmente concessa.

Rileggere oggi il suo romanzo Strage suscita molta curiosità e mi sento di sottoscrivere le parole che Libero Mancuso le dedica nella prefazione dell’opera: «magnifico romanzo, denso di colpi di scena e di sorprendenti intuizioni che contendono alle verità faticosamente ricostruite in tante sentenze, plausibilità, razionalità, verità».

 

D:

Strage fu pubblicato per la prima volta da Rizzoli nel 1990; lei usò lo pseudonimo di Jules Quicher. Poco tempo dopo, l’opera fu ritirata dalla circolazione. Nel 2010, in occasione del trentennale della strage, lei ha pubblicato con Einaudi una nuova edizione del romanzo. Quali cambiamenti, se ci sono stati, ha apportato nella nuova edizione del 2010?

R:

Una precisazione: detta così, “usò lo pseudonimo”, sembrerebbe che avessi scelto un nome fittizio per vergogna di ciò che avevo scritto. Lo pseudonimo serviva per il progetto editoriale che avevamo in mente io e l’editor della Rizzoli, tale Edmondo Aroldi, detto Pallino. Cioè raccontare il nostro paese dimostrando alla critica italiana (allora poco attenta agli autori italiani di genere) e ai giornalisti (ancor più distratti) che anche gli scrittori italiani ci sapevano fare.

Cambiamenti: uno solo e suggerito da Libero Mancuso. Non mi piace rivelare quale. Vorrei che lo scoprissero i lettori.

D:

Nel suo romanzo si descrive un intreccio tra mafia, massoneria, vertici politici ed eversione nera che farebbe da sfondo alla strage alla stazione. E fin qui potremmo dire nulla di nuovo alla luce di quanto nei vari gradi di giudizio sembra essere emerso. Ma c’è un particolare che sorprende. Nel romanzo, l’esplosione sarebbe accidentale e la valigia con l’esplosivo era trasportata proprio da una delle 85 vittime, un ragazzo proveniente da autonomia operaia. Come mai questa scelta così insolita? Perché collocare il “colpevole” tra le 85 vittime? A quale delle 85 vittime si è ispirata la figura di Daniele Turri?

R:

Il romanzo si ispira alla strage alla stazione di Bologna, ma poi prende vita e si sviluppa nella fantasia dell’autore. È stato un modo per ricordare (ci hanno reso la memoria corta) quel tragico avvenimento. Daniele è frutto di quella fantasia, com’è frutto della fantasia l’ipotesi dello scoppio accidentale. Ma l’accidentalità nasconde, così com’è congeniata nel romanzo, una realtà ben più tragica e che avrebbe dato risultati sconvolgenti per la vita democratica italiana.

D:

Nella scorsa primavera – in un’intervista al Resto del Carlino dell’8 aprile 2012 – l’onorevole Enzo Raisi ha parlato proprio di un ragazzo dell’autonomia romana morto nell’esplosione. Lei in qualche modo aveva anticipato la notizia di oltre vent’anni. Intuito di un grande romanziere o qualcosa di più?

R:

A me non piace rimescolare nel torbido e non mi convincono le ipotesi che si gabellano per vere. Anch’io ho fatto delle ipotesi, ma le mie, lo ripeto, sono frutto di fantasia, appartengono a un romanzo e, come tali, accettabili e senza fini nascosti.

Quanto all’intuito di uno scrittore, posso confermare che spesso le fantasie dei romanzi anticipano la realtà. La storia della letteratura ne è piena e, per restare al sottoscritto, ricordo di aver scritto, mi pare nel 1978, un romanzo nel quale Sarti Antonio correva alla stazione di Bologna dov’era stata piazzata una bomba. E un racconto dove si narra di una sparatoria in un campo di nomadi alla periferia della città. Fantasie, ovviamente, ma forse nell’aria ci sono i sintomi di ciò che sta per (o potrebbe) accadere e chi ha antenne sensibili, coglie quei sintomi.

D:

Nel romanzo lei descrive una visita in obitorio, avvenuta dopo la strage, di Claudia Patruni (fidanzata della vittima che trasportava l’esplosivo) e dell’ex agente dei servizi segreti francesi Jules Quicher. Questo episodio è completamente inventato o potrebbe essere ispirato a qualcosa avvenuto realmente? Nella già citata intervista, Raisi – il quale ha poi riferito ai magistrati che attualmente si occupano della nuova indagine sulla strage alla stazione aperta nel novembre 2005 sulla cosiddetta “pista palestinese” – parla proprio di due ragazzi che riconoscendo una vittima, fuggono dall’obitorio, notati da un carabiniere.

R:

Anche qui mi rifaccio a quanto riferito sopra. Non sapevo e non so ciò che sa l’onorevole Raisi, ma sono del parere che le informazioni andrebbero date a chi di competenza e possibilmente in tempi rapidi. La fantasia mi suggerì, allora, che qualcuno (parenti delle vittime, amici, persone interessate, ecc…) avrebbe potuto andare all’obitorio per accompagnare, per riconoscere un corpo o per altri scopi più o meno leciti. Circa la “pista palestinese” la mia fantasia non arrivò a tanto, ma mi pare che la fuga di due persone sospette, come racconta l’onorevole Raisi, non sia il modo migliore per non farsi notare da un carabiniere.

D:

Il personaggio di Claudia Patruni ricorda per certi versi una donna reale che attualmente è iscritta nel registro degli indagati dai pm bolognesi. Mi riferisco alla tedesca Christa-Margot Fröhlich, membro del gruppo Carlos. Secondo l’ipotesi scaturita dai lavori della Commissione Mitrokhin il gruppo facente capo al terrorista venezuelano avrebbe compiuto la strage per conto del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) di George Habbash. L’attentato sarebbe da considerarsi come una ritorsione seguita alla rottura del cosiddetto “lodo Moro” avvenuta nel novembre 1979 con il sequestro di due missili Sam-7 Strela e l’arresto del rappresentante per l’Italia dell’Fplp, il giordano residente a Bologna Abu Anzeh Saleh.

Tornando alle similitudini tra la Patruni e la Fröhlich, lei fa arrivare il suo personaggio in Italia dall’est europeo con delle armi. La Fröhlich, proveniente dalla Romania, fu effettivamente arrestata a Fiumicino il 18 giugno 1982 con una valigia contenente 3,5 kg di esplosivo.

Ma c’è un altro passaggio singolare nel suo libro che richiama una certa somiglianza tra le due donne. Lei sa che la notte tra il 1° e il 2 agosto 1980 all’hotel Centrale di via della Zecca, pernottò un altro membro del gruppo Carlos amico della Fröhlich, il tedesco Thomas Kram. Dopo l’arresto della Fröhlich a Fiumicino, un cameriere dell’hotel Jolly pensò di riconoscere – dalla foto pubblicata sul Resto del Carlino del 22 giugno 1982 – una donna tedesca con cui aveva parlato proprio il 1° e il 2 agosto 1980. Ora lei nel suo libro fa avvenire un primo incontro del tutto casuale tra Jules Quicher e Claudia Patruni con la quale Quicher si urta sotto il “portico” dell’hotel Carlton (duecento metri dalla stazione), dove egli alloggia. Poi dalla finestra della sua camera (al secondo piano) Quicher descrive ciò che vede: «Oltre il piazzale dinanzi al Carlton, alcuni alberi di uno scarno giardinetto mandavano i loro rami fin sopra la massiccia struttura di un’antica porta della città [porta Galliera]. A destra, alcuni ruderi di un tratto di mura cotti dal sole facevano vibrare l’atmosfera restituendo il calore accumulato nella giornata. Forse un tempo quelle mura erano collegate alla porta che Jules vedeva davanti alla finestra. Ancora a destra accanto ai ruderi, una enorme e bianca scalinata a più rampe divergenti [il Pincio] saliva una collinetta ricoperta da antichi platani dalle foglie immobili [la Montagnola]. I viali, che si intravedevano fra i rami degli alberi, erano deserti» (pp. 12-13).

Lei sa benissimo che dall’hotel Carlton, via Montebello 8, non si può vedere nulla di tutto ciò, a maggior ragione dal secondo piano. La vista descritta invece è possibile proprio dall’hotel Jolly, piazza XX settembre 2, cioè dall’hotel in cui fu vista la donna indicata dal cameriere come Christa-Margot Fröhlich. L’hotel Carlton ha inoltre davanti un parchetto recintato con cancello e non c’è il porticato, mentre il Jolly ce l’ha. Trovo la cosa abbastanza singolare. Perché, lei che conosce bene i luoghi ha pensato di dare un nome diverso al luogo che stava descrivendo? Che cosa mi può dire a proposito?

R:

Andiamo per ordine. O, come diceva mio padre, ubriachiamoci uno alla volta. Se per Claudia Patruni mi fossi ispirato alla signora tedesca che lei cita, non sarei uno scrittore. Sarei un veggente. Quanto ai risultati della commissione Mitrokhin, lascio agli esperti le considerazioni, limitandomi a tenere presente ciò che la magistratura ha, fino ad oggi, appurato.

Per il resto, lei mi assegna delle conoscenze che non avevo e non ho. Ciò che io so è quanto ho potuto desumere dalle letture dei materiali a disposizione di tutti, lettura che ho fatto prima di mettermi a scrivere il romanzo e quindi prima del 1989.

Il rebus Carlton-Jolly. La sua fantasia, devo convenire, è superiore alla mia. Io ho semplicemente fatto dei due hotel un solo hotel perché mi permetteva di descrivere una parte della città più vasta e più interessante. Non sono un cronista e non mi interessa la rappresentazione realistica dei luoghi. Il mio mestiere è inventare. Storie, personaggi, luoghi…

D:

Nel romanzo spicca la figura del generale Dalla Vita che ricorda inevitabilmente Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si racconta anche della presenza di alcuni suoi uomini nelle zone prossime alla stazione, periti poi nell’esplosione. Gli uomini di Dalla Vita erano sulle tracce di qualcuno. Dalla Chiesa però non è mai stato accostato alla vicenda della strage di Bologna. Questi accostamenti che invece lei fa sono casuali?

R:

Non posso negare che il generale Dalla Chiesa mi abbia ispirato nella costruzione del mio personaggio. Mi piaceva il suo modo di investigare; mi piacevano la sua voglia di verità e i suoi rapporti con la politica, mi piaceva soprattutto la sua onestà professionale, anche se non la condividevo del tutto. Mi ha colpito la sua tragica morte e, in un certo senso, l’ho usata. Le somiglianze si fermano qui. Il generale Dalla Vita è il generale Dalla Vita.

D:

Per concludere, quali sono i motivi che l’hanno spinta ad utilizzare la forma del romanzo per scrivere a proposito della più grave strage nella storia dell’Italia repubblicana. Non sarebbe stato più appropriato scegliere la forma del saggio? Nella sua opera, come si diceva sopra, emergono scenari diversi dagli esiti giudiziari delle sentenze definitive. Lei ha ricavato questi elementi nuovi dalla lettura delle carte giudiziarie? oppure li ha attinti da “fonti riservate” che hanno voluto far filtrare frammenti di una qualche realtà “indicibile”?

R:

Certo, scrivere un saggio sarebbe stato più facile. Sarebbe bastato prendere ciò che tutti sanno, riscriverlo e commentarlo. Ma, ripeto, io le storie le invento.

Questa sua domanda mi ricorda l’aneddoto che raccontò, durante una trasmissione televisiva, uno studioso dei servizi segreti. La trasmissione era Brontolo, ma non ricordo la data né il nome del professore. Si parlava di stragi italiane, ma più che il sottoscritto parlarono gli altri. Ancora oggi mi chiedo a che titolo il buon Oliviero Beha mi avesse fatto andare fino a Roma a spese dei telespettatori.

Lo studioso di cose segrete ci informò in diretta che il mio romanzo, all’epoca della prima uscita, e cioè nel 1990, fu letto da alcuni esperti dei servizi segreti i quali, a lettura ultimata, scrissero una relazione ipotizzando che sotto lo pseudonimo di Jules Quicher si nascondesse in realtà Licio Gelli.

Ancora oggi non so se arrabbiarmi per l’offensiva attribuzione o sorridere per l’acume dei servizi segreti.

Mi dispiace ma non ho nessun frammento di verità da far filtrare. Intanto, se avessi una verità, non la farei filtrare, la racconterei. E se avessi fonti riservate, farei l’agente segreto. Anche se non mi divertirei come mi diverto a fare lo scrittore.

Gabriele Paradisi