“Omicidio di Stato”. Il piccolo, ma coraggioso Armando Curcio Editore ha voluto intitolare così il documentatissimo saggio scritto da Nicola De Palo sulla tragica e incredibile vicenda di sua cugina Graziella e del collega Italo Toni, i due italiani “desaparecidos” dal 2 settembre 1980 a Beirut. Se non il padre, sono almeno il padrino di quest’opera, fortemente e tenacemente voluta da un cugino di secondo grado che né Graziella né io conoscevamo personalmente, essendosi suo padre trapiantato con successo in Liguria dalla nativa Gravina di Puglia, molti decenni fa.

Nicola, per pudore nei confronti del mio di padre, omonimo del suo, non si fece direttamente vivo con me se non poco dopo la sua morte, tanto lo aveva intuito schivo da qualsiasi iniziativa che accendesse i riflettori sulla tragica vicenda di sua figlia. Da qualche anno infatti il suo sogno era di scrivere la sua tesi di laurea in Scienze della Formazione su questa vicenda seppellita dall’oblio più totale da quando Bettino Craxi, presidente del Consiglio pro tempore nel 1984, ne aveva avallato la copertura con il segreto di Stato. Il suo desiderio veniva in qualche modo a coronare il mio sogno di offrire a mia sorella una memoria perpetua con la stesura di un libro che da solo non ero mai riuscito a scrivere, ma al quale pensavo come al luogo mentale ideale per farla risorgere.
Fu così che Nico venne a trovarci a Roma, accompagnato dall’intraprendente papà Vincenzo, trovando a sua disposizione 100 microcassette meticolosamente registrate dall’ottobre 1980 all’estate 1984, che costituiscono il mio “tesoro” e la mia assicurazione sulla vita, oltre che il corpus di una vera e propria indagine, segreta e privata, condotta dai giorni dei primi sospetti fino a quelli della conclamata malattia psichiatrica che mi colpì dopo la sofferta decisione da me presa nel corso di una telefonata a Carlo Rognoni, allora direttore di Panorama, durante la quale chiesi di sospendere l’inchiesta che il settimanale aveva messo in pagina sulla vicenda di Graziella e Italo.

Dopo l’abbandono del nostro primo avvocato, l’onorevole liberale Alfredo Biondi, che quella vicenda se l’era tutta giocata con Giulio Andreotti a ridosso dell’uscita delle liste della Loggia massonica P2, mio padre si era rivolto a un altro penalista di grido, scomparso da molti anni, Franco Cuttica, diventato famoso dopo la fuga del suo cliente Herbert Kappler dall’Ospedale militare del Celio.

Nella sua retorica fascistoide questo personaggio, massone come Biondi, ma dichiarato, aveva giurato a mamma di tornarsene dal suo prossimo, e mai più intrapreso, viaggio in Libano, con Graziella tra le braccia. Ma il mio innocuo articolo, come al solito, se fosse uscito avrebbe fatto saltare tutto. Era l’autunno del 1981, la “fase eroica” della mia inchiesta era finita da qualche mese, sapevo che su questa terra non avrei mai più rivisto Graziella né Italo, e che l’unica cosa che fossi in grado di fare, con tutto il materiale raccolto, era la confezione di un grosso scandalo ad hoc. Ma ogni volta che qualcuno riapriva la prospettiva e la speranza, con le quali eravamo stati “drogati” per mesi dai servizi segreti, che Graziella potesse essere viva, ognuno di noi si adoperava attivamente per mettere a tacere tutto ancora per una volta. Quella fu l’ultima, perché il mio rapporto con il collega Alvaro Ranzoni, uno dei primissimi ad intuire la verità e a contattarci, circa un anno prima, si deteriorò inevitabilmente e definitivamente, ragion per cui il periodico che doveva dare il maggior risalto alla vicenda grazie all’esclusiva cui mi ero impegnato, finì paradossalmente per diventare quello che se ne è occupato di meno in assoluto…

Non mi sembra ancora vero il fatto di avere tra le mani questo agile libro, che appunto ho visto nascere come voluminoso studio scientifico, per trasformarlo, a partire dalla mia nuova scansione dei capitoli fino alla completa riscrittura del grande editor Fabrizio Biferali, in un thriller mozzafiato che si divora in tre o quattro ore…

Gian Paolo Pelizzaro, giornalista d’inchiesta e saggista dal 2008 all’Ufficio Stampa del Campidoglio, non solo è riuscito, mobilitando il Sindaco di Roma Capitale Gianni Alemanno, ad ottenerne il patrocinio per il libro, assieme a quello del Comune di Sassoferrato, di cui era nativo Italo Toni, ma ne ha scritto la generosa e documentatissima prefazione, il cui titolo, “Sacrificati sull’altare della ragion di Stato”, ricostruisce il più accreditato movente dell’omicidio di Stato in questione.
Il primo capitolo del saggio consiste nella trascrizione integrale del testo della mia prima intervista al “Maurizio Costanzo Show”, che indusse finalmente, grazie al clamore che provocò, il pubblico ministero Giancarlo Armati e il giudice istruttore, Renato Squillante, a incriminare per falsa testimonianza il generale Giuseppe Santovito, direttore dei servizi segreti italiani all’epoca dei fatti, e a spiccare finalmente il tanto atteso mandato di cattura nei confronti del colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, già capo centro del Sismi a Beirut.

Ed eccoci ai ritratti di Graziella e Italo, abbozzati da Nicola nel secondo dei 19 capitoli. Siamo così a Graziella che indaga sui traffici illeciti riconducibili appunto al tanto discusso e abile colonnello Giovannone: «Lawrence d’Arabia nella Beirut palestinese, nome in codice “Maestro”, si era distinto per la sua approfondita conoscenza dello scacchiere mediorientale […] spendendo mezzo secolo della sua vita vestendo – e svestendo – gli abiti militari, in particolare dal 1965 al 1981», data nella quale fu appunto sospeso dal servizio, essendo stato da me pubblicamente “bruciato”. Giovannone era un elemento essenziale di quel determinato sistema di potere occulto contro il quale si batteva Graziella, sulla base soprattutto delle informazioni fornitele dall’ammiraglio Falco Accame, deputato socialista, già presidente della Commissione Difesa della Camera, declassato da Craxi a vicepresidente della stessa.

Il viaggio in Libano dell’estate 1980, organizzato e offerto dal capo della Delegazione palestinese a Roma, Nemr Hammad, doveva servire a documentare, anche fotograficamente, le informazioni e i documenti cartacei dei quali Graziella era in possesso. “Omicidio di Stato” ripubblica coraggiosamente e integralmente quegli stessi articoli commissionatigli dall’onorevole comunista Giuseppe Fiori, che di Paese Sera era direttore all’epoca dei fatti, e che, come sua santità Giovanni Paolo II e l’onnipresente segretario generale della Farnesina, Francesco Malfatti di Montetretto, fu una delle tre personalità del secolo scorso dalle quali non siamo mai riusciti a farci ricevere, assieme a due che brillano nel Terzo Millennio: l’ex sindaco di Roma Walter Veltroni e l’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Perché per il resto, abbiamo incontrato proprio tutti, come ben documenta Nico: da Sandro Pertini a Giulio Andreotti, da Susanna Agnelli a Yasser Arafat, e così via. A dire il vero, un altro osso duro, mai incontrato, è il defunto presidente siriano Afez Assad.

È dopo la drammatica visita all’ambasciata italiana di Beirut del primo Settembre 1980 e il conseguente rapimento della mattina successiva che “Omicidio di Stato” si trasforma in un intrigo internazionale. Ecco che infatti ora che Graziella non può più indagare su di lui, ad indagare appunto sulla sua scomparsa, e all’evidente scopo disinformativo per nascondere per sempre la Verità, c’è udite udite, il colonnello Stefano Giovannone, già collega del padre di Graziella, Vincenzo, al corso allievi ufficiali nel quale entrambi, e tanto diversamente, si formarono!

E così mentre la Farnesina ci intima di non partire, per lasciare a Giovannone il tempo di occultare la Verità sostituendola con una di comodo, ecco i De Palo «da Sandro Pertini per dipanare una tragedia greca». Perché quale storia più tragica di questa, che vede il primo degli imputati trasformato in plenipotenziario “cittadino al di sopra di ogni sospetto” che, tassello dopo tassello, si sforza di far sparire ogni traccia di due giornalisti barbaramente trucidati nel settore siro-palestinese di Beirut, per farli misteriosamente ricomparire, come due fantasmi, nell’Hotel Montemar di Junieh, settore cristiano della capitale libanese (Est), covo di spie israeliane.

Questa la “verità di Stato” comunicata fin dall’ottobre 1980 dai servizi segreti alle superiori autorità del governo italiano, dove intanto a Francesco Cossiga è subentrato, in uno dei tanti giri di valzer della Prima Repubblica, Arnaldo Forlani. Questi, sofficemente adagiato su un divano a Palazzo Chigi, e alla presenza del suo segretario particolare, Umberto Vattani, e del direttore del Sismi, Giuseppe Santovito, muto come un pesce, dichiara candidamente alla signora Renata Capotorti, la mamma di Graziella, ricevuta insieme al marito Vincenzo De Palo e al figlio Giancarlo: «Signora, sua figlia è viva, prigioniera dei falangisti», aggiungendo, quasi a scusarsi, nella sua qualità di democristiano: «Sa, quelli si dicono cristiani, ma non lo sono», per concludere saggiamente che, «blandendo e minacciando», usando alternativamente il bastone e la carota, «riusciremo a farcela ridare», tra un colpo al cerchio e uno alla botte, e salvando, beninteso, capra e cavoli.
A questo punto, mi resi conto che il “Watergate italiano”, lo scandalo De Palo-Toni, era nelle mie mani, e che il mio dovere di fratello era quello di confezionarlo e darlo in pasto all’opinione pubblica per squarciare, una volta per tutte, il velo dell’omertà. Ma prima di tutto bisognava fare il tanto rinviato, logico, formale e doveroso primo passo: correre in Libano, là dove Graziella e Italo erano scomparsi.

Si svolgeva in quei giorni all’Hotel Meridien di Damasco, alla presenza di Yasser Arafat, il Consiglio nazionale palestinese. Per mia madre e per me saperlo e imbucarci lì furono una cosa sola, che il nostro Ministero degli Esteri, ben consapevole delle conseguenze di un nostro viaggio in loco avrebbe avuto, cercò fino all’ultimo di impedirci.

Era la notte della Risurrezione di Gesù, quando Arafat finalmente ci ricevette, da noi che lo speravamo politicamente convinto che dire la verità era l’unica carta rimasta nelle sue mani da spendere politicamente. Ma Arafat, falsamente commosso e in realtà intriso anche lui – come il mostro Abu Ayad, capo dei suoi servizi segreti che avevamo già e avremmo in futuro incontrato a lungo – di crimine e di menzogna, non esitò un attimo a “tranquillizzare” la mia povera mamma, con un’altra risurrezione, tanto falsa quanto Vera è quella di Cristo: «Graziella è prigioniera dei falangisti».

A Beirut un solo italiano aveva saputo quasi immediatamente la verità, trasmettendola al MAE, e pagandola di persona con il trasferimento forzato dalla capitale libanese in preda alla guerra civile alla tranquilla e al paragone quasi asettica Copenhagen: l’ambasciatore Stefano D’Andrea, dai tempi del caso Moro in rotta di collisione con l’altro Stefano, sotto il cui italico tetto conviveva: Giovannone. E Beirut, dopo Damasco, era appunto la destinazione obbligata di mia madre e mia.

Ma a riceverci non trovammo appunto il distinto D’Andrea, bensì un ambasciatore da operetta, immortalato da Oriana Fallaci nel suo “Inshallah”: Francesco Lucioli Ottieri, il quale esordì con una risata – «Ci ha fatto molto ridere quel che vi ha detto Arafat» – che si trasformò poi in una smorfia di preoccupazione e imbarazzo non appena gli spiegammo che le parole di Arafat erano le stesse pronunciate solo un mese prima dal presidente del Consiglio italiano, Arnaldo Forlani.

Due indagini su Graziella e Italo, e due verità contrapposte: il competente Ministero degli Esteri è in possesso dal 28 ottobre 1980 perfino dei nomi del commando di terroristi palestinesi che li rapì. Ma questa è una verità scomoda, che deve restare segreta e che il segretario generale Malfatti, chiamato come amico dall’ex compagno di partito socialista Sandro Pertini, si guarda bene dal comunicargli, incaricando invece prima, e accreditando poi, un’altra inchiesta a quei servizi segreti che controlla d’ufficio, nella sua qualità di membro di diritto del CESIS (l’allora Comitato esecutivo Servizi informazione e sicurezza). La famosa quanto falsa pista falangista nasce così, sul tavolo di una scrivania ministeriale a Roma.

“Omicidio di Stato” è tutto questo e molto altro ancora. È un libro che colma finalmente un vuoto. È un viaggio negli orrori della Prima Repubblica, dove lo Stato di diritto era un luogo inaccessibile, un club esclusivo, frequentato da pochi intimi privilegiati. Per tutti gli altri, poteva andare bene anche l’inferno.

Giancarlo De Palo

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“Omicidio di Stato”, di Nico De Palo

Prefazione di Gian Paolo Pelizzaro

Armando Curcio Editore, Roma 2012

pp. 224 – 18 euro