logo_stasiIl titolo del saggio di Antonio Selvatici contiene un’affermazione assiomatica legata intimamente a una verità la cui scoperta della risposta (o meglio, delle risposte) è rimandata all’esame dei nove capitoli. Chi spiava i terroristi è un libro non solo che va letto, ma studiato con estrema attenzione, con la perizia e la serietà che merita un’opera unica nel suo genere. Centoquarantanove pagine (parlo della prima edizione, stampata nel giugno del 2009) di materia viva, senza sbavature, senza teoremi, impermeabile ai complotti e alle insulse dietrologie. Il lavoro poggia semplicemente, ma inesorabilmente su documenti e riscontri d’archivio. Una prosa asciutta come un osso di seppia fa il resto, lasciando la trama nella sua essenziale e spaventosa crudezza.
Finalmente.
Una vera boccata d’ossigeno dopo un’intera era politico-geologica di asfissia. Se non sbaglio, l’ultimo grande libro sul tema è stato pubblicato nel 1989 dall’amico Stelio Marchese, già docente di storia contemporanea all’Università de L’Aquila, studioso di straordinario valore e onestà intellettuale. Si intitolava «I collegamenti internazionali del terrorismo italiano»… Per decenni questo argomento, e cioè i collegamenti internazionali del terrorismo italiano e il ruolo di eventuali centrali di etero direzione, è stato qualcosa di più che un tabù. Fino al 1989-1991 (anni in cui vediamo la caduta del Muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica), in Italia ha regnato sovrana una ragion di Stato che ha di fatto impedito, a qualsiasi livello, la diffusione e l’analisi di questo fenomeno. Negli anni successivi, a partire dallo scandalo di Mani Pulite, la questione è stata poi totalmente oscurata, seppellita dal fallout dell’eruzione delle cronache giudiziarie ambrosiane, degli avvisi di garanzia e delle manette facili.
Ricordo quando, per la Commissione parlamentare sul terrorismo e le stragi, dovetti affrontare il tema dei collegamenti del terrorismo italiano e lo stupore e la mortificazione di scoprire che nei vasti archivi di Palazzo San Macuto, sede della Commissione bicamerale d’inchiesta, sul tema c’era un vuoto inquietante. Una voragine documentale, una quasi totale assenza di fonti, carte ed elementi di fatto. Ho scritto e denunciato tutto questo nella introduzione alla relazione che poi ho depositato agli atti della Commissione per spiegare ai commissari politici (un binomio linguistico che rimanda a vecchie pratiche sovietiche) nel lontano luglio del 2000, per spiegare i motivi e le ragioni di questo gigantesco imbroglio. Uno studioso del futuro, se dovrà scrivere sul terrorismo italiano sulla base delle carte e dei documenti in possesso della più longeva commissione d’inchiesta mai istituita dal Parlamento italiano, non avrebbe avuto alcuna possibilità di affrontare il problema basandosi sui dati disponibili. Ecco perché fu ritenuto fondamentale e anche urgente completare il quadro con la relazione sulla «dimensione sovranazionale del fenomeno eversivo in Italia». Ma se andiamo a vedere, tra il libro del professor Marchese e questo elaborato c’è un buco temporale di ben undici anni durante i quali si è scritto e detto di tutto, ma non la cosa più importante e cioè che il terrorismo ispirato all’ideologia marxista-leninista (Brigate rosse in testa) non era altro che un settore territoriale di un fenomeno molto più vasto e complesso la cui cabina di regia era non soltanto all’estero, ma all’Est. Nell’Europa Orientale.
Il libro dell’amico Selvatici colma un vuoto nella voragine storiografica del cosiddetto «euroterrorismo» con particolare riguardo al panorama italiano. Si tratta di un’opera assai coraggiosa, tenuto conto che la vulgata dominante ha sistematicamente ripetuto una serie di luoghi comuni imbastiti su una trama costruita a tavolino per stornare i sospetti più pesanti dagli uomini e dalle strutture più coinvolte e compromesse: quelle legate ai servizi segreti di alcuni Paesi dell’Europa Orientale, nell’orbita dell’allora Unione Sovietica. Selvatici ha lavorato sodo proprio su quel versante, sulle carte conservate negli archivi di questi Stati dell’ex cortina di ferro. Carte e documenti che, per ovvie e non giustificabili ragioni, mai sono stati cercati, letti, studiati e analizzati da alcun giornalista o studioso italiano. Perché?
La risposta va cercata nelle casseforti della politica che nel nostro Paese ha – per decenni – paralizzato la ricerca storiografica su un versante a senso unico, e cioè contro le forze del Patto Atlantico, contro i servizi segreti occidentali, contro la Cia, il Sifar, il Sid, il Sismi e tutto il resto dell’armamentario della cosiddetta teoria del «doppio Stato» e della «sovranità limitata». Una ragnatela di interessi, dai più evidenti ai più sordidi e inquietanti, ha sistematicamente legato le mani alla libera ricerca, gettando nel tritacarne chiunque abbia tentato di squarciare il velo delle false verità. In questo senso, Antonio Selvatici ha avuto un gran coraggio non solo nello sfidare sul terreno dei riscontri d’archivio il «luogocomunismo» in tema di collegamenti internazionali del terrorismo domestico, ma soprattutto pubblicando il suo saggio attraverso una casa editrice con sede a Bologna, città nella quale il libero dibattito, culturalmente e storicamente, è sempre stato percepito come un elemento di disturbo. Cambiano i regimi, ma non le motivazioni di fondo. L’estremismo politico-culturale irrobustito dall’idea di un’egemonia culturale autoreferenziale ha attecchito e messo radici profonde. In questa opprimente «foresta di mangrovie» non c’è spazio per altre forme di vita intellettuale. Eppure, nonostante la fitta trama di arbusti, rami e radici, lentamente, ma inesorabilmente la verità dei fatti ha iniziato a farsi strada, aprendosi varchi verso la luce, verso la verità. Cito una frase, fra le tante che mi hanno colpito nel libro di Selvatici: «La Stasi seguiva con interesse le Brigate rosse». E poche pagine dopo, il colpo di mannaia: «È sbagliato immaginare che il dipartimento denominato “antiterrorismo” della Stasi si occupasse solo di “antiterrorismo”: collaborava con alcune formazioni terroristiche». Ai tempi della Ddr, l’idea dell’eterodirezione del terrorismo europeo e internazionale era una prassi consolidata. Cito ancora, da pagina 29: «Il dipartimento dell’antiterrorismo è quello che custodisce più informazioni. È qui che sono state rinvenute le schede intestate a Barbara Balzerani, Cesare Battisti, Renato Curcio, Adriana Faranda, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Francesco Piperno, Giovanni Zamboni, Mario Moretti, Lauro Azzolini, Alessio Casimirri e Patrizio Peci». Il gotha del terrorismo rosso e dell’antagonismo di sinistra italiano, Brigate rosse e Potere operaio in testa. «Come vedremo – spiega Selvatici – non tutti sono stati membri delle Brigate rosse. Vi è un’unica scarna scheda intestata al defunto avvocato Sergio Spazzali. Non sono stati trovati riscontri riguardanti Walter Alasia, Annalaura Braghetti, Sandra Castelli, Giorgio Conforto, Sergio D’Elia, Ovidio Bompressi, Marco Boato e Hildegard Sybille Hagg. Ciò non significa che i file non esistano o non siano mai esistiti, ma che non sono stati trovati. Molti documenti, così come mi hanno comunicato dall’archivio, probabilmente sono stati distrutti prima del novembre 1989, data della caduta del Muro di Berlino». Selvatici ha anche ritrovato le tracce di un album fotografico «di amici sul terrorismo internazionale» confezionato dal Kgb e nel quale sono citati personaggi come Renato Curcio, Lauro Azzolini e Barbara Balzerani. Lo Stato Maggiore delle Br. Perché è stato definito «album degli amici» dagli uomini del Kgb? Chi era amico di chi?, si domanda l’autore.
Berlino Est, Budapest, Praga, Mosca. Un quadrilatero ancora tutto da esplorare, ma che il libro di Selvatici fissa sulla carta geografica con grossi spilloni rossi. La pratica è finalmente trattata e non sottratta all’esame e al giudizio dei lettori, dei cittadini, della pubblica opinione di questo Paese intossicato di politica e digiuno di fatti e verità. La storia scritta dai Comitati Centrali dei Partiti non funziona, come non funzionavano i libri di testo delle scuole albanesi durante l’oscurantismo del regime nazional-comunista ai tempi della dittatura di Enver Hoxha. Chi spiava i terroristi cita anche la vicenda del generale cecoslovacco Jan Sejna, classe 1927, già Segretario generale della Difesa del Comitato Centrale e successivamente Primo segretario del ministero della Difesa cecoslovacco e membro del Collegio del ministero della Difesa della Repubblica socialista cecoslovacca. Sejna defezionò il 25 febbraio del 1968, rifugiandosi negli Stati Uniti con la sua giovane amante, il figlio e una cassa di documenti segreti di valore strategico. La Cia lo prese in carico, così come aveva fatto con altri alti ufficiali dei servizi segreti cecoslovacchi come il generale Frantisek Moravec che aveva guidato dal suo esilio a Londra la resistenza nel Protettorato di Boemia e Moravia dopo il trattato di Monaco e durante la Seconda Guerra mondiale. Sejna defeziona alla vigilia della Primavera di Praga e prima dell’invasione sovietica del 20-21 agosto 1968. Fra i documenti che passò all’intelligence americana c’era anche un elenco di nominativi di estremisti di sinistra italiani che – stando alle informazioni del servizio di sicurezza cecoslovacco – avevano frequentato campi di addestramento paramilitari a Doupov e ?umperk. Su queste informazioni in Italia si è aperta una diatriba quasi senza fine, ma nessuno si è mai preso la briga di andare a verificare alla fonte non tanto l’attendibilità della lista portata in dote alla Cia da Sejna, ma l’autenticità dei nomi così come trascritti personalmente dal generale. Perché mai nessun magistrato, investigatore, poliziotto ha mai chiesto di ascoltare l’autore di quel documento? Perché Jan Sejna non è mai stato invitato in Italia a testimoniare o a raccontare la sua versione di fatti, relativamente agli agenti italiani che andavano ad addestrarsi in Cecoslovacchia prima che esplodesse a livello internazionale il fenomeno del terrorismo? Le verità che il generale poteva raccontare erano veramente fondamentali per capire la genesi del terrorismo e gli ingranaggi del sistema che lo imposero in Europa Occidentale a partire dal 1969.
Sejna scrisse anche un libro, We Will Bury You, pubblicato nel 1982, mai tradotto in Italia. Il generale muore misteriosamente il 23 agosto del 1997 a New York, molto probabilmente assassinato (tramite avvelenamento) per mano russa come punizione per aver collaborato con le autorità statunitensi, svelando le linee strategiche della politica estera sovietica prima e russa poi, nei confronti dell’Europa, del continente americano e dell’Asia. Jan Sejna come Alexander Litvinenko?
Un tema, questo, che meriterebbe un serio approfondimento. Intanto, riflettiamo sulle trame svelate da Antonio Selvatici. Vale la pena ricordare che in libreria è arrivata la seconda edizione di Chi spiava i terroristi. Kgb, Stasi – Br, Raf, ampliata e aggiornata con nuovi, terrificanti documenti ritrovati negli archivi dell’Est…