«No, beh, queste sono le solite farfalline che presenta l’onorevole [Enzo Raisi] in giro, soprattutto per fare in modo che i giudici non vadano avanti con il discorso di arrivare ai mandanti».

Queste le parole di Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, martedì 13 novembre 2012 alle 23.15 nell’ambito della rubrica del Tg2 Punto di vista, condotta da Maurizio Martinelli. Bolognesi era collegato in esterno con lo studio Rai dove Enzo Raisi, deputato di Futuro e libertà, stava presentando il suo libro, in uscita proprio in questi giorni, “Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva della verità. 2 agosto 1980” (Minerva Edizioni).

L’intervento di Bolognesi sopra riportato era una replica all’esposizione sintetica di Raisi della cosiddetta pista palestinese per la strage di Bologna.

Tra Raisi e Bolognesi le polemiche si sprecano, soprattutto da quando, nel novembre 2005, la Procura di Bologna ha aperto un nuovo fascicolo d’indagine sulla strage che, potenzialmente, potrebbe mettere in discussione le sentenze passate in giudicato e che hanno visto la condanna definitiva come esecutori, dei Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini nonché dei depistatori Licio Gelli, Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci.

Enzo Raisi è stato membro della Commissione Mitrokhin e proprio in quell’ambito, grazie al lavoro di ricerca dei consulenti Gian Paolo Pelizzaro e Lorenzo Matassa, sono emerse le evidenze della pista, definita ironicamente in diverse occasioni da Bolognesi “teutonico-palestinese”, che individua negli uomini di Carlos al soldo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) di George Habbash, i possibili esecutori della strage del 2 agosto, quale ritorsione per il sequestro di due missili ad Ortona (7-8 novembre 1979), ma soprattutto per l’arresto del responsabile per l’Italia dell’Fplp, il giordano di origine palestinese Abu Anzeh Saleh (14 novembre 1979). Quell’evento aveva decretato la rottura del “lodo Moro”, il patto segreto tra governo italiano e organizzazioni palestinesi – messo a punto dopo l’attentato ai depositi petroliferi Siot di San Dorligo della Valle (Dolina) a Trieste del 4 agosto 1972, in un periodo compreso tra il massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 5-6 settembre dello stesso anno compiute da Settembre Nero e la strage all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino del 17 dicembre 1973 a Roma – finalizzato a proteggere l’Italia e i suoi interessi in cambio dell’immunità e della libertà di movimento per il trasporto e lo stoccaggio di armi da guerra ed esplosivi nel nostro territorio da parte dei palestinesi.

Quando al termine del servizio del Tg2, Maurizio Martinelli ha chiesto:

«Bolognesi, io vorrei da lei una risposta franca: leggendo i documenti anche della Commissione Mitrokhin le è mai venuto in qualche modo il dubbio che la verità giudiziaria non corrispondesse alla verità storica?», il presidente dell’Associazione senza esitazione ha risposto perentorio: «No, nel modo più assoluto».

Per Bolognesi, dunque, le parole di Raisi, i tanti documenti e riscontri raccolti in questi anni, le stesse indagini dei magistrati («Del resto, i giudici di Bologna sono sette anni che stanno indagando sul niente e non arriveranno da nessuna parte»), sarebbero «farfalline», cioè entità eteree, effimere, che si disperdono nell’aria prive di peso, valore e di sostanza.

Nei pochi minuti a disposizione, il presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime del 2 agosto, con la consueta aggressività, ha cercato di rubare la scena a Raisi, ma nell’esporre le sue ragioni ha richiamato alcuni argomenti, riproponendo le solite interpretazioni errate. Poiché egli, giustamente, in ogni occasione pubblica sostiene quanto sia importante che ogni dettaglio sia sempre supportato da riscontri e documenti inconfutabili, ci permettiamo di ripassare il suo breve intervento, evidenziando come egli abbia nella sostanza disatteso questo condivisibile e nobile intento.

Una caldaia riesumata

«Ma, dunque, guardi, gli elementi [per la condanna dei Nar] sono all’interno della sentenza ma siccome a me preme molto fare il discorso di arrivare ai mandanti voglio far notare che nel 1980 ci fu un’altra operazione che fu quella di indicare che non fu uno scoppio di una bomba ma di una caldaia. Quell’operazione servì fondamentalmente a far sì che a Bologna non si doveva trovare nessuno di quelli che erano veramente a Bologna, cioè dei Nar che erano veramente a Bologna».

Era già accaduto quest’anno, durante le prime settimane dell’agosto 2012, giorni abitualmente dedicati a Bologna alle commemorazioni e iniziative sul 2 agosto, che durante una presentazione del libro “Mandanti e stragi” a cura di Paolo Bolognesi e Roberto Scardova (Edizioni Aliberti), il presidente dell’Associazione avesse richiamato la vicenda dello scoppio di una caldaia, come un depistaggio messo in opera da quelle fantomatiche entità che avrebbero cercato – fin dal primissimo istante – di distogliere l’attenzione dai veri responsabili.

Ma vediamo come andarono veramente le cose quel tragico sabato 2 agosto 1980.

Il primo lancio di agenzia che parlò dello “scoppio di una caldaia”  come possibile causa del disastro, è un’Ansa delle ore 11.45, ovvero un’ora e venti minuti dopo la tragedia. Questo il testo:

«Esplosione nella stazione ferroviaria di Bologna – Bologna, 2 ago – Sul posto si sono recati vigili del fuoco, carabinieri, polizia e il prefetto di Bologna, Boccia. Sulle cause dell’esplosione una delle ipotesi è che il disastro possa essere stato provocato dallo scoppio di una caldaia, che si troverebbe sotto il bar-ristorante: molti infatti hanno visto una colonna di denso fumo nero alzarsi dal centro della deflagrazione. Questa ipotesi non ha trovato però molto credito, anche da parte dello stesso prefetto, soprattutto per la grande violenza dell’esplosione».

L’ipotesi dunque parrebbe scaturire più da considerazioni di testimoni che hanno visto una colonna di fumo nero alzarsi dal luogo dell’esplosione, piuttosto che da dichiarazioni ufficiali di funzionari. Peraltro, come sottolineato nell’agenzia, tale ipotesi sembra suscitare immediato scetticismo allo stesso prefetto.

Alle 12.47 un nuovo lancio Ansa sembra riprendere in considerazione con più forza l’ipotesi della caldaia:

«Esplosione nella stazione ferroviaria di Bologna – Bologna, 2 ago – Sulle cause della sciagura (la deflagrazione è avvenuta tra le 10.25 e 10.26) ancora soltanto ipotesi. Appare ora credibile, più di quanto fosse sembrata in un primo momento quella dello scoppio di una caldaia della centrale di alimentazione dell’acqua calda, posta nel seminterrato dei locali dove c’è stato lo scoppio».

Ma già alle 16.09 l’ipotesi dello scoppio di una caldaia è quasi del tutto decaduta:

«Esplosione nella stazione ferroviaria di Bologna ANSA – Bologna, 2 ago – Alcuni elementi emersi nello svolgimento delle prime indagini parrebbero escludere lo scoppio di una caldaia e di apparecchiature in locali sottostanti o adiacenti a quelli dove è avvenuta l’esplosione. L’ing. Felice Mossini, dirigente dell’ufficio lavoro del primo tronco delle Ferrovie dello Stato, ha detto che non ci sono scantinati sotto le due sale d’aspetto. Gli addetti dell’Amga (Azienda municipalizzata gas e acqua) hanno controllato le tubazioni della parte del fabbricato lesionato trovandole in perfetto stato di efficienza. Il brigadiere della polizia ferroviaria Mario Salerno, infine, si è recato nel magazzino posto nel seminterrato del ristorante ed ha riferito che “è tutto in ordine”. Non ci sono cioè danni o rotture ai locali o alle apparecchiature installate».

Infine il riepilogo Ansa delle 18.37, decreta la fine definitiva dell’ipotesi della caldaia, per lo meno per quanto riguarda l’ambito dell’informazione:

«Bologna, 2 ago – Si è allora avanzata l’ipotesi dello scoppio della caldaia che alimenta la centrale termica della stazione ferroviaria, oppure di quella che serve la cucina del ristorante. Dopo qualche ora però, entrambe le possibilità sono state escluse dai tecnici, anche grazie ad un rapido sopralluogo. C’è l’incognita della tavola calda, con la presenza di bombole di gas liquido nei locali di servizio. Anche in questo caso, però, voci ufficiose vogliono che le bombole siano state trovate intatte. Si è pensato ad una fuga di gas, ma l’azienda municipalizzata che gestisce il servizio di erogazione ha fatto sapere che, dai primi controlli compiuti dalla centrale, non risulterebbero falle nelle tubature».

Come si può vedere, l’ipotesi dello scoppio della caldaia, frutto probabilmente di una qualche dichiarazione a caldo di un testimone o di un soccorritore, raccolta da qualche cronista giunto nell’immediatezza sul luogo della tragedia, viene accantonata già nel primo pomeriggio del 2 agosto. I giornali che attingevano alle agenzie di stampa avevano già la possibilità, poche ore dopo la strage, di evidenziare i dubbi di plausibilità di una simile ipotesi.

Ma quello che è più importante, ovviamente, non è quanto si è eventualmente diffuso a livello di media e di pubblica informazione, ma piuttosto quale indirizzo presero le indagini – possiamo dire, a caldo – e come si comportarono i vari responsabili istituzionali. Se, come pare voler lasciare intendere Bolognesi, la caldaia fu il primo vero depistaggio messo in opera, occorre verificare come si mossero coloro che seguivano le indagini.

Il primo documento che fa piazza pulita delle “farfalline” di Bolognesi è un “telegramma precedenza assoluta” firmato dal questore di Bologna, Italo Ferrante, che viene trasmesso a tutte le Questure d’Italia e a Interno Sicurezza 224 (Ucigos) di Roma. La data è 2 agosto, l’ora non è dattiloscritta. Un appunto a penna in calce al documento lascia intendere che siano le 21.20.

Questo il testo:

«Cat. A.4/DIGOS punto Relazione esplosione avvenuta stamane locale stazione Fs non potendosi escludere anche attentato cui matrice potrebbe farsi risalire at elementi destra extraparlamentare pregasi controllare subito rispettive giurisdizioni presenza noti elementi aderenti at disciolto movimento Ordine Nuovo et gruppi Fronte Nazionale Rivoluzionario, et Ordine Nero controllando anche eventuali alibi punto Particolare raccomandazione rivolgesi Questure Toscana punto Esito solo se positivo punto».

Poche ore dopo, alle 23.10 del 2 agosto 1980, stando sempre a un appunto a penna rinvenuto sul documento, il questore Ferrante trasmette un nuovo “telegramma precedenza assoluta” questa volta indirizzato in particolare alle Questure di Roma, Milano, Firenze, Arezzo, Napoli e Reggio Calabria, e poi per conoscenza a tutte le altre questure italiane e a Interno sicurezza.

Ecco il contenuto:

«Cat. A.4/DIGOS Seguito tele pari categoria data odierna et relativo esplosione avvenuta locale stazione F.S. Questure in indirizzo sono particolarmente pregate controllare attività et presenza tutti elementi aderenti disciolto Ordine Nuovo et Gruppi Fronte nazionale Rivoluzionario et Ordine Nero punto Pregasi altresì valutare opportunità compiere relativi atti P.G. confronti persone che diano comunque sospetti punto Restasi attesa anche esito negativo punto Rimanenti Questure sono pregate intensificare  at massimo servizi informativi et relative indagini punto».

Lo scenario è tutt’altro, rispetto alle roboanti affermazioni del presidente Bolognesi: fin dal 2 agosto 1980, infatti, le indagini, che come si ama dire normalmente si sviluppano “a 360 gradi”, nel caso di Bologna si indirizzarono immediatamente e in modo perentorio in una sola, unica, precisa direzione. Quella “giusta” oltretutto, se vogliamo restare alla verità giudiziaria a cui si è giunti nel 1995 (Cassazione che condanna Mambro e Fioravanti) e poi ancora nel 2007 (condanna definitiva di Ciavardini). L’ipotesi dell’incidente, lo scoppio di una caldaia, non sembra aver suggestionato più di tanto il questore Ferrante e tanto meno i magistrati della Procura felsinea.

Non solo. Il giorno 3 agosto lo stesso Ferrante dà disposizione alle relative Questure di «svolgere accuratissime indagini atte a stabilire quali contatti et colloqui habet avuto ultimi tempi» Piero Malentacchi, Mario Tuti e Luciano Franci. I tre neofascisti erano stati rinviati a giudizio il 1° agosto 1980 quali esecutori materiali della strage dell’Italicus (4 agosto 1974, 12 morti e 44 feriti).

Sempre il 3 agosto il questore di Bologna invia un ulteriore dispaccio a tutte le Questure e a Interno Sicurezza e per la prima volta vengono nominati e tirati in ballo direttamente proprio i Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), il gruppo di Mambro e Fioravanti. Non sono trascorse che ventiquattro ore, poco più, dall’attentato. Evidentemente, il cosiddetto “depistaggio” della caldaia ha distratto ben poco gli inquirenti bolognesi:

«Cat. A.4/DIGOS punto Fa seguito at telex data ieri p. c. punto Pregasi disporre, ove ritenuto del caso perquisizioni domiciliari anche ex art. 41 T.U.L.P.S. [L’art.41 del Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 TULPS – Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza – consente agli ufficiali e agli agenti della polizia giudiziaria, che hanno notizia, anche se per indizio, dell’esistenza, in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, di procedere immediatamente a perquisizione e sequestro, ndr] confronti noti elementi eversivi destra Ordine Nuovo, Fronte Nazionale Rivoluzionario, Avanguardia Nazionale, Organizzazione di Popolo, Ordine Nero et altri gruppi eversivi estrema destra punto Per Questura Milano segnalasi opportunità controllare attività appartenenti gruppo Fenice, mentre Questura Roma est pregata controllare in particolare alibi elementi che sono emersi ultimamente come appartenenti Nuclei Armati Rivoluzionari et Movimento Rivoluzionario Popolare punto».

Questa corrispondenza dimostra, senza il minimo dubbio, l’inconsistenza dell’argomento “caldaia”. Fa specie che a distanza di 32 anni e più dalla strage, si pensi di rafforzare l’impianto delle sentenze definitive e parallelamente sminuire la consistenza della pista palestinese, riesumando, maldestramente, simili argomenti.

Un Kram “qualunque”

«No [Kram] era un falsario, non era un esperto di esplosivi».

Questa la rabbiosa affermazione di Bolognesi, sempre durante Punto di vista, quando da Raisi viene introdotto nella discussione il nome di Thomas Kram. Costui era un terrorista delle Cellule rivoluzionarie tedesche (Rz), membro permanente del Gruppo Carlos (“Mitglied der Carlos-Gruppierung”, classificato dalla Stasi al n° 7 nel Katalog diSeparat, ovvero nell’organigramma dell’Organizzazione dei rivoluzionari internazionalisti – ORI), che si registrò in un albergo di Bologna la notte tra il 1° e il 2 agosto 1980.

Kram insieme alla sua sodale Christa-Margot Fröhlich (che sarà arrestata a Fiumicino il 18 giugno 1982 con una valigia imbottita di esplosivo) è dal luglio 2011 iscritto dalla Procura di Bologna nel registro degli indagati.

 

In verità, la prima parte dell’affermazione di Bolognesi è corrispondente al vero e allora ci chiediamo: “Da dove proviene l’informazione che Kram era un falsario (di documenti, ndr) fatta propria da Bolognesi?”.

Molto semplice. È tratta dal mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte federale tedesca emanato il 6 dicembre 2000 nei confronti del terrorista tedesco. Il documento venne inoltrato alla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione nel marzo 2001 dalle autorità tedesche che stavano dando la caccia a Kram, entrato in clandestinità nell’allora Germania Ovest nel dicembre 1987 (riemergerà solo nel dicembre 2006).

 

Il passaggio esatto sulle capacità di falsario di Kram recita:

«Per quanto concerne la falsificazione dei passaporti Kram nell’associazione era uno degli specialisti» (Procura di Bologna, p.p. 788/01-K mod. 45). Dunque, come abbiamo già sottolineato, Bolognesi non ha mentito su questo punto. Ma questo vuol anche dire che il documento in cui è riportata l’expertise di Kram come falsario (quindi il mandato di cattura tedesco), è ritenuto da Bolognesi, e da chiunque altro, fonte certa e attendibile. In altre parole è il documento di riferimento a cui attingere notizie sulle attività criminali di Kram.

E allora sfogliamo le 12 pagine che lo compongono. È così che scopriamo che Kram era ritenuto coinvolto direttamente nelle azioni terroristiche delle Rz (Revolutionäre Zellen), tra cui due gambizzazioni e un omicidio; che risultava rivestire un ruolo centrale nell’organizzazione: «L’indagato, oltre a queste capacità intellettuali, disponeva anche di conoscenze pratiche. Aveva dimestichezza con le armi». Ma un passaggio in particolare, peraltro immediatamente successivo la famosa capacità di falsificare passaporti, recita testuale: «[Kram] non aveva difficoltà a preparare cariche esplosive e detonatori a tempo». Possibile che all’attento e scrupoloso Paolo Bolognesi questo delicato passaggio sia sfuggito?

Delle due l’una: o mente quando afferma di aver letto tutti i documenti o mente quando parla di Kram.

L’affermazione, messa a confronto sulle fonti documentali, non lascia scampo. Ma a ben vedere, questa versione manipolata del curriculm criminale del terrorista tedesco non è una novità. Fin dalla scoperta del suo nome negli atti d’archivio della Questura di Bologna, nel luglio del 2005, c’è stata una sorta di gara – da parte dei cosiddetti negazionisti – nel voler occultare, nascondere o, peggio, manipolare le informazioni sul ruolo e sull’attività di Kram in seno alle Cellule rivoluzionarie e a Separat.

La capacità di Kram di preparare cariche esplosive e detonatori viene regolarmente omessa (http://segretidistato.liberoreporter.it/index.php/home/primo-piano/primo-piano/119-strage-bologna-nuove-piste-e-vecchi-veleni-organismi-testualmente-modificati-otm-.html), così come viene negata strenuamente la sua appartenenza al gruppo Carlos.

Peccato, però, che i documenti originali (integrali) dicano tutt’altro e traccino scenari ben più complessi e inquietanti rispetto a quelli descritti da Bolognesi.

Ad esempio, recuperando i documenti della Stasi, custoditi oggi dal BStU (Bundesbeauftragten für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik) di Berlino, si scopre senza alcun dubbio chi faceva parte del gruppo Carlos, quali erano i suoi spostamenti, quali erano le regole che governavano l’organizzazione, su quali obiettivi orientavano le loro azioni, di quali coperture godeva la struttura.

Per la cronaca il “mite” falsificatore Kram, tre giorni dopo la strage, anziché a Firenze dove disse di essersi recato nell’unica intervista rilasciata ad un giornale italiano – il manifesto, 1° agosto 2007 – lo ritroviamo a Berlino Est, quartier generale di Separat. Quella stessa sera convenne a Berlino da Budapest anche Johannes Weinrich, numero due dell’organizzazione e diretto superiore di Kram.

Così, mentre i ragazzini perduti dei Nar, dopo aver compiuto il più grave attentato avvenuto nel dopoguerra in Europa, correvano a procurarsi documenti falsi da un delinquente comune (il 4 agosto) e compivano una rapina ad un’armeria (il 5 agosto), i vertici del gruppo Carlos convergevano a Berlino Est dai quattro angoli d’Europa, sotto l’ala protettiva della Stasi. La mitica efficienza tedesca contrapposta allo spontaneismo e all’improvvisazione italica…

Quest’esegesi delle parole di Bolognesi tratte da una breve intervista televisiva, vista comunque da centinaia di migliaia di persone, ci serve per affermare un concetto molto semplice. Se si vuole intavolare un confronto, serio, leale, onesto, mossi esclusivamente dalla voglia di verità senza alcun secondo o terzo fine, sarebbe necessario sgombrare il terreno dalle argomentazioni oggettivamente false.

Dovrebbe risultare naturale e ovvio, forse anche scontato, tra persone oneste, convenire sui fatti, sui documenti e sui riscontri oggettivi e non su versioni di comodo, omissive, parziali, costruite più o meno a tavolino. Purtroppo da anni vediamo riproposti in ogni occasione e sistematicamente argomenti già più volte documentalmente confutati e smentiti, tanto che viene naturale e spontaneo dubitare della buonafede di chi li agita in pubblico.