Valter BielliSTRAGE DI BOLOGNA – Già lo scorso anno, l’8 e il 9 settembre 2010, Valter Bielli, ex responsabile Ds in Commissione stragi (1996-2001) e in Commissione Mitrokhin (2002-2006), aveva pubblicato due articoli per l’UnitàEmilia Romagna, intitolati rispettivamente: “Due agosto ecco le carte su Kram” e “Strage: niente conduce ai palestinesi”. A ridosso del trentesimo anniversario della strage alla stazione infatti, era emersa qua e là sui giornali, la cosiddetta “pista palestinese”, forse per la prima volta con una certa insistenza, da quando la Procura di Bologna aveva aperto, nel novembre 2005, un nuovo fascicolo d’indagine (di solito indicato dai giornali come “inchiesta bis”) in base alle risultanze scaturite proprio dai lavori della Commissione Mitrokhin.

Quasi sicuramente poi, a creare un certo clima d’incertezza e di disagio in coloro i quali sostengono e difendono la linea ufficiale, corroborata peraltro da sentenze definitive – clima che aveva portato il presidente dell’Associazione dei familiari della vittime Paolo Bolognesi ad affermare, rivolto alla Procura invitandola a chiudere al più presto il fascicolo: “così vedremo di che morte dobbiamo morire” – erano state con ogni probabilità le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel discorso pronunciato l’8 maggio 2010, in occasione del “Giorno della memoria” dedicato alle vittime del terrorismo. Parlando proprio della strage del 2 agosto, il presidente della Repubblica aveva detto:

«Tre lunghi decenni sono passati. Per il devastante attentato alla Stazione Centrale di Bologna, i processi si sono susseguiti fino all’aprile 2007, tra progressi nel ricostruire i fatti e individuare le responsabilità, battute d’arresto, ritorni indietro, sentenze definitive. Un iter tormentoso per quanti hanno atteso giustizia. Le ombre e i dubbi che sono rimasti hanno stimolato un nuovo filone d’indagine, dagli sviluppi ancora imprevedibili».

Quest’anno si è verificato un innalzamento ulteriore della temperatura delle polemiche, con l’annuncio, apparso in esclusiva sul Resto del Carlino il 19 agosto 2011, dell’iscrizione nel registro degli indagati di Thomas Kram e Christa-Margot Fröhlich; iscrizione che ha palesato definitivamente la consistenza della cosiddetta “pista palestinese”. È così che Valter Bielli quest’anno di articoli sulla vicenda per l’Unità ne ha scritti addirittura tre.

Purtroppo, come del resto era avvenuto lo scorso anno, anche questi ultimi articoli sono infarciti di inesattezze e di omissioni. Se nel 2010, la pubblicazione del libro “Dossier Strage di Bologna. La pista segreta” scritto insieme con Gian Paolo Pelizzaro e François de Quengo de Tonquédec (Giraldi, 393 pp.) e un informale confronto pubblico nel corso di una presentazione al festival dell’Unità di Bologna, ci avevano permesso di ribattere in altra forma, quest’anno ci corre l’obbligo di rispondere puntualmente e per iscritto attraverso un quotidiano online.

Oggi prenderò in esame alcuni degli argomenti del primo dei tre articoli di Bielli. Quello pubblicato il 21 agosto 2011 e intitolato “2 agosto, la pista che non regge”.

[b]«Dove sta la novità?»[/b]

«Due nuovi indagati per la strage […] dove sta la novità? I due sono già stati indagati e, sulla base anche di un interrogatorio svolto in Germania dal pm Giovagnoli con Kram, non venne fuori nulla di più di quanto era già in possesso della Procura».

Su questo passaggio rimando all’articolo “Strage di Bologna, la verità negata e i tuttologi senza bignamino” pubblicato il 23 agosto su LiberoReporter.it http://www.liberoreporter.it/NUKE/news.asp?id=7083.

In esso si evidenziava come nel fascicolo aperto nel 2001, proprio da Paolo Giovagnoli e intitolato “Cellule rivoluzionarie tedesche – strage 2/8/1980”, non era stata effettuata nei confronti di Thomas Kram di fatto nessuna indagine, né in Italia né all’estero, nonostante quanto richiesto nel rapporto originario di Gianni De Gennaro, capo della Direzione Centrale di Polizia di Prevenzione, dell’8 marzo 2001. A dimostrazione di ciò in quell’articolo abbiamo documentato come la delega per le indagini del sostituto procuratore, diretta al Ros e alla Digos, fosse datata 23 aprile 2001 mentre l’atto amministrativo di archiviazione, per quanto riguardava Kram, era stato firmato dal magistrato addirittura il giorno successivo, il 24 aprile. Dunque un tempo troppo breve per procedere a qualsiasi approfondimento. D’altronde, se su Kram fossero state svolte accurate indagini nel 2001 e non fossero emersi elementi nuovi, non ci sarebbe stato alcun motivo di aprire un altro fascicolo nel 2005.

Per quanto riguarda l’interrogatorio di Kram effettuato da Giovagnoli nel 2008, al di là che molto difficilmente un presunto responsabile di un misfatto confessa spontaneamente quando viene ascoltato come persona informata sui fatti, proprio Giovagnoli ci ha raccontato sul Resto del Carlino del 21 agosto 2011 che “Kram voleva parlare, ma aveva paura di inguaiarsi” con la magistratura tedesca che lo stava processando per la sua appartenenza alle Cellule rivoluzionarie. Dunque il silenzio di Kram nel 2008 non ci pare un motivo di grande rilievo. Viceversa un interrogatorio oggi, sulla base dei documenti raccolti negli ultimi anni dal nuovo sostituto procuratore Enrico Cieri, permetterà forse di rendere più significative eventuali dichiarazioni, ma anche eventuali silenzi, qualora Kram dovesse avvalersi della facoltà di non rispondere.

Il “lodo Moro”: quanta confusione

Da quando ne parlò il presidente emerito Francesco Cossiga nel 2008, il “lodo Moro” è entrato a far parte, nelle sue linee generali, del bagaglio culturale un po’ di tutti. È normale quindi che se ne parli e che si dicano e scrivano cose non sempre precise. Se un giornalista che è costretto ad occuparsi quotidianamente di tanti argomenti diversi ha delle attenuanti, un deputato che è stato membro di rilievo di ben due Commissioni parlamentari d’inchiesta che si sono occupate di vicende di terrorismo e d’intelligence, forse ne ha un po’ meno.

Proviamo innanzitutto ad inquadrare il “lodo” cronologicamente e nei fatti, vedremo poi di evidenziare l’approssimazione con cui esso è trattato nell’articolo che stiamo analizzando.

Il “lodo” fece capolino pubblicamente già nel 1978 attraverso le stesso Moro che lo evocò in almeno sei lettere da lui scritte a fine aprile, durante il suo sequestro da parte delle Brigate rosse.

Quell’accordo segreto tra governo italiano (Moro-Rumor) e organizzazioni palestinesi, salvaguardava il nostro Paese da attacchi terroristici, in cambio si consentiva ai palestinesi il libero trasporto, il deposito e il commercio di armi da guerra sul suolo italiano.

Nel 1972, alcuni gravi attentati operati da organizzazioni palestinesi, in primis il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), avevano reso impellente la stipula di un qualche patto o accordo sotterraneo. In particolare nel febbraio erano stati colpiti alcuni gasdotti in Germania mentre il 4 agosto era toccato a quattro serbatoi dell’oleodotto Trieste-Ingolstad a San Dorligo della Valle. Si era alla vigilia della crisi petrolifera che esploderà in tutta la sua virulenza l’anno dopo, ed il problema energetico era già un nervo scoperto dei Paesi occidentali che quindi non potevano non interpretare con preoccupazione simili attentati. Ma non vennero risparmiati nemmeno i civili. Il 16 agosto 1972 un’esplosione in volo interessò un aereo della El Al appena decollato da Fiumicino. Per fortuna l’aereo con 145 persone a bordo non precipitò. Le indagini scoprirono che ad esplodere era stato un mangianastri che due arabi avevano regalato a due ignare ragazze inglesi conosciute giorni prima a Roma. I due terroristi vennero arrestati. Nemmeno tre settimane dopo, il 5 settembre, ci fu la nota strage alle Olimpiadi di Monaco di Baviera.

Tra il maggio 1972 e il settembre 1973, si verificarono nel nostro Paese almeno sette gravi episodi che coinvolsero terroristi palestinesi ­– intercettazioni di carichi di armi, tentate stragi come quella del 16 agosto 1972. I responsabili di tali atti furono quasi sempre individuati e assicurati alla giustizia. Dal febbraio 1973 al marzo 1974 tutti però furono liberati, anche i due del mangianastri. Spesso la liberazione avveniva anche dietro il pagamento di cauzioni da parte dei nostri servizi. Clamoroso fu l’episodio che il 5 settembre 1973 vide l’arresto in un appartamento di Ostia di 5 arabi armati di lanciamissili. Due di loro, tra cui Atif Busaysu “stretto associato di grado elevato di Salah Khalaf alias Abu Ayad – secondo un appunto del Sid del 25 ottobre 1973 – furono liberati e trasportati il 30 ottobre in Libia con un aereo dei servizi segreti (Argo 16 che precipiterà in circostanze misteriose a Marghera il 23 novembre 1973). Gli altri tre verranno liberati nel marzo 1974 dopo il pagamento di una cauzione per complessivi 60 milioni di lire.

Dunque, osservando questa sequenza di arresti e di rilasci, è presumibile supporre che il “lodo” fosse attivo fin dai primi mesi del 1973. In tale contesto la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973 (32 morti) è un evento anomalo che può spiegarsi con il fatto che forse la situazione sfuggì di mano al commando palestinese che avrebbe dovuto compiere l’azione in altro luogo lontano dall’Italia. In quei giorni, da poco era terminata la guerra del Kippur, si stava preparando la Conferenza di Ginevra (21 dicembre 1973 – 18 gennaio 1974) nel contesto della quale Israele ed Egitto firmeranno un accordo di pace.

Vediamo ora come Valter Bielli tratta le vicende del “lodo”.

il 14 febbraio ’73 [in realtà il 13 febbraio] i due arrestati [ci si sta riferendo ai due del mangianastri] vengono liberati ed espatriati con un aereo della Difesa che, al ritorno, precipita”.

Come abbiamo visto l’aereo della Difesa non precipitò in quella occasione ma nove mesi dopo.

Il 6 settembre dello stesso anno [in realtà il 5 settembre 1973] cinque arabi vengono arrestati ad Ostia in una casa in cui era custodito un lanciamissili [in realtà i lanciamissili erano almeno due]. Pochi giorni dopo [in realtà più di tre mesi dopo, il 17 dicembre], a Fiumicino avviene la strage firmata da «Settembre nero», con bombe incendiarie contro l’aereo della Pan Am; più di 20 vittime [esattamente 32 tra cui sei italiani]. Poi il commando impadronitosi di un altro aereo vola ad Atene e chiede la liberazione di due terroristi scoperti ad Ostia che, immediatamente, vengono rilasciati”.

In realtà il commando palestinese giunto ad Atene chiese il rilascio non dei terroristi di Ostia in carcere in Italia, che all’epoca erano solo tre in quanto i primi due erano già stati rilasciati il 30 ottobre, ma il rilascio di palestinesi detenuti in Grecia. Per la cronaca, i cinque dirottatori autori della strage di Fiumicino termineranno la loro azione in Kuwait. Presi in consegna dall’Olp verranno incarcerati a Tunisi e liberati nel novembre 1974 sotto il ricatto di un altro dirottamento in corso. Per gli approfondimenti sulla strage di Fiumicino si vedano gli articoli “Una strage dimenticata” (http://www.cielilimpidi.com/?p=394), “Ancora interrogativi su Fiumicino” (http://www.cielilimpidi.com/?p=403) e “Fiumicino 17 dicembre 1973: un libro” (http://segretidistato.liberoreporter.it/index.php/approfondimenti/terrorismo/fiumicino-1973/63-fiumicino-17-dicembre-1973-un-libro.html).

 

Ortona e la rottura del “lodo”

Il sequestro dei due missili Sam-7 Strela, di fabbricazione sovietica, di proprietà dell’Fplp a Ortona (nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979), l’arresto dei tre autonomi romani (Daniele Pifano, Giuseppe Luciano Nieri e Giorgio Baumgartner) e del giordano di origini palestinesi Abu Anzeh Saleh (responsabile dell’Fplp per l’Italia), fu un grave episodio che di fatto ruppe, almeno temporaneamente, il patto.

Che l’episodio avesse innervosito i palestinesi è costretto ad ammetterlo lo stesso Bielli:

Vero è che il Fplp si era particolarmente adombrato per la detenzione in carcere di Saleh e chiedeva di vietare che i due lanciamissili sequestrati fossero esaminati dai servizi israeliani e statunitensi. Secondo un’informativa del 1978 [sic 1980], il Fronte minacciava una rappresaglia nel caso che tale richiesta venisse rifiutata”.

In effetti non furono solo i palestinesi ad adombrarsi. Anche i nostri servizi si misero in allarme; e fecero pressioni occulte perché venisse usata clemenza nei confronti degli arrestati da parte dei magistrati che conducevano il processo. Il 25 gennaio 1980, tuttavia, una prima sentenza per direttissima aveva inflitto sette anni di reclusione ai responsabili.

Ecco un elenco sintetico di quanto avvenne in quei frenetici giorni:

  • Il 2 gennaio 1980 (ma depositata in udienza il 10 gennaio) perviene una lettera al presidente del Tribunale (dott. Federico Pizzuto) dal Comitato Centrale dell’Fplp di George Habbash;
  • Il 12 gennaio 1980 Rita Porena (giornalista e contatto del Sismi e di Stefano Giovannone con i palestinesi) intervista Bassam Abu Sharif su Paese Sera. Il leader palestinese rivendica i missili sequestrati a Ortona e la liberazione di Abu Anzeh Saleh;
  • Il 3 luglio 1980 Taysir Qubaa (vice di George Habbash) rilascia una intervista al Messaggero in cui tra l’altro dice: «Va bene veniamo a Pifano e ai lanciarazzi. “Ecco. Devo dire che come palestinesi, come combattenti per la Liberazione della Palestina, noi crediamo di poter usare qualsiasi mezzo che ci consenta di portare avanti la nostra lotta. Non abbiamo esportato la rivoluzione in Italia, ma abbiamo usato e useremo l’Italia e i nostri compagni italiani come supporto alla nostra lotta. […] Non combattiamo contro il governo italiano, tantomeno vogliamo danneggiare il popolo italiano. La nostra lotta è contro Israele e chiunque è disposto ad aiutarci sarà benvenuto. […] Non abbiamo esportato la rivoluzione in Italia, ma abbiamo usato e useremo l’Italia come supporto alla nostra lotta. Non combattiamo contro il popolo italiano, tanto meno vogliamo danneggiare il popolo italiano. […] L’Italia è emporio, punto di vendita e di transito della maggior parte del traffico d’armi che riguarda questa zona del mondo. Abbiamo le prove di molte complicità. A tutti i livelli. Se occorrerà le tireremo fuori».
    • L’11 luglio 1980 il direttore dell’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni e le operazioni speciali) il prefetto Gaspare De Francisci trasmette una nota riservata al direttore del Sisde generale Giulio Grassini: «la condanna di Abu Anzeh Saleh aveva determinato reazioni assai negative nell’ambiente dell’Fplp e che non veniva escluso che la stessa organizzazione potesse tentare un’azione di ritorsione nei confronti dell’Italia, ovvero altra azione diretta in ogni modo alla liberazione del giordano».
    • In data imprecisata ai magistrati della Corte d’Appello dell’Aquila si presenta un capitano dei servizi segreti in borghese chiedendo indulgenza per i quattro detenuti.
    • La corrispondenza tra De Francisci e il capo del Sismi generale Giuseppe Santovito continua fino al 1° agosto 1980.

Dunque una lunga sequenza di interventi atti a scongiurare ritorsioni.

Verso la fine del suo articolo, Bielli afferma:

Tuttavia, dal riscontro in atti non risulta alcun collegamento tra la vicenda di Ortona e la strage di Bologna”.

Ci permettiamo di ricordare un documento da noi ritrovato presso il Tribunale di Venezia e relativo alla deposizione, davanti al giudice istruttore Carlo Mastelloni, l’8 ottobre 1986, di un alto ufficiale dei servizi segreti, Silvio Di Napoli, nel 1979-80 addetto a ricevere le informative di Stefano Giovannone capo centro del Sismi a Beirut:

«Dopo la prima condanna inflitta agli autonomi e al giordano pervenne da Giovannone l’informativa secondo cui l’Fplp aveva preso contatti con il terrorista Carlos. Ciò avallò la minaccia prospettata da Habbash».

Come ricordato sopra, la “prima condanna” è quella del 25 gennaio 1980, “gli autonomi” e il “giordano” sono Pifano, Nieri, Baumgartner e Abu Anzeh Saleh.

Forse questo documento, che Bielli ormai non dovrebbe ignorare, qualche collegamento tra la vicenda di Ortona e la strage alla stazione di Bologna sembra indicarlo.

(1. continua)