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«… mentre la strage di Bologna, quella di Ustica, le altre stragi vivono ogni anno la loro commemorazione, il loro attimo sempre più sfuggente della memoria, per la strage di Fiumicino del ’73, ma anche per quella dell’85 ancora a Fiumicino, fin da subito è sceso un imbarazzato quanto assordante silenzio. […] Da 37 anni su quei 32 morti è calato il sudario dell’oblio. I loro nomi non esistono. Con le 14 vittime dell’attentato del 1985 ai banchi della TWA e della El Al, anch’essi morti senza nome, addirittura 46 persone non si sono viste riconoscere neppure il fiore di una citazione. Insomma la strage di Fiumicino, o meglio le due stragi di Fiumicino, non contano, non esistono, non solo non hanno diritto alla memoria, ma sono oggi completamente cancellate, dimenticate, rimosse» (Sandro Provvisionato, dalla Prefazione al libro di Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti, “Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero”, Rubbettino, 2010).

Cosa successe a Fiumicino quella livida mattina di dicembre di trentasette anni fa?

Alle 12,51 cinque terroristi palestinesi (ma alcune testimonianze sostengono che fossero almeno sette), giunti alla barriera di sicurezza del molo ovest, estraggono le armi dai bagagli e si dividono in due commando. Un gruppo con i mitra puntati prende in ostaggio sei agenti di polizia poco più che ventenni spingendoli verso la rampa 14. Si tratta di Andrea Diliberto,Salvatore Fortuna, Francesco Lillo, Mario Muggianu, Ciro Strino e Vincenzo Tomaselli. Strino tenta una reazione, ma rimane ferito da due colpi di pistola alle costole e allo stomaco. Il secondo gruppo, forse due o tre terroristi, corre verso l’uscita 10, abbatte la vetrata a raffiche di mitra e scende in pista. Nelle piazzole prospicienti il molo ovest si trovano in quel momento tre aeromobili: l’Air France volo 142 per Beirut-Damasco (partenza prevista alle 13,25), il Lufthansa volo 303 per Monaco (partenza prevista alle 12,35), il Pan American volo 110 per Beirut-Teheran (partenza prevista alle 12,45). Da notare la tragica casualità: se i voli fossero partiti in orario, sulla pista sarebbe stato presente solo l’aereo dell’Air France che fu l’unico a non subire alcun danno dall’azione terroristica.

Il gruppo sceso in pista dall’uscita 10, si dirige sparando verso l’aereo della Pan Am, sale sulle scalette ancora appoggiate ai portelli di prua e di poppa e getta all’interno dell’aereo due, forse tre, bombe al fosforo. L’aereo si incendia istantaneamente. All’interno ci sono 59 passeggeri e 10 membri dell’equipaggio. Moriranno carbonizzati una hostess e 28 passeggeri. Tra di essi un’intera famiglia italiana, Giuliano De Angelis (35 anni), sua moglie Emma Zanghi (34 anni) e la loro figlioletta Monica (7 anni). Sedici persone verranno ricoverate negli ospedali romani. Una di queste, l’ing. Raffaele Narciso, morirà per le ustioni poco dopo.

Il secondo commando raccoglie lungo il percorso che li divide dall’aereo della Lufthansa altri ostaggi: il caposquadra della società ASA (Assistenza Servizi Aerei), Domenico Ippoliti che verrà poi ucciso a sangue freddo e abbandonato sulla pista dell’aeroporto di Atene, la groundhostess della compagnia tedesca Hanel Hella e l’impiegato della stessa compagnia Rosenbusch Ubrich. Tentano di far salire a bordo anche il finanziere Antonio Zara che svolgeva il suo servizio di vigilanza doganale sotto la plancia del velivolo, ma, forse per una reazione istintiva, viene prima bloccato facendogli scendere il cappotto sulle braccia e poi, dopo avergli fatto segno di allontanarsi, viene freddato con una raffica di mitra. Aveva appena venti anni.

Saliti a bordo dell’aereo Lufthansa anche i componenti del commando che aveva compiuto la strage sull’aereo della Pan Am, alle 13,32, solo 41 minuti dall’inizio dell’operazione, l’aereo decolla con destinazione Atene.

Trattative col governo ellenico per la liberazione di due terroristi palestinesi in carcere in Grecia non danno esito. Tra finte esecuzioni sommarie e l’uccisione reale di Domenico Ippoliti, il cui cadavere viene gettato sulla pista, dopo 16 ore di permanenza ad Atene l’aereo riparte non prima di aver liberato anche l’agente ferito Ciro Strino.
Beirut e Cipro rifiutano l’atterraggio, così i terroristi ripiegano su Damasco. Dopo l’ennesimo tira e molla l’aereo rifornito di carburante riparte per la sua ultima destinazione: Kuwait dove nella serata del 18 dicembre verranno liberati tutti gli ostaggi sopravvissuti ed “arrestati” i terroristi. Consegnati dopo qualche settimana all’Olp che dovrebbe processarli, verranno in realtà liberati. La magistratura italiana non riuscirà mai ad identificarli e tanto meno a condannarli.

Il bilancio finale dell’azione palestinese è di 32 morti e 15 feriti. Mai nel dopoguerra si è assistito in Italia, ma nemmeno nell’intera Europa, ad una tragedia di queste dimensioni. Solo la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, coi suoi 85 morti e oltre 200 feriti, toglierà a Fiumicino ’73 questo tragico primato. Nonostante ciò questa strage sembra non appartenere alla memoria collettiva del nostro Paese. È vero che la maggioranza delle vittime era straniera, ma tra loro ci sono ben 6 italiani tra cui, ripetiamo, un’intera famigliola. La strage di Fiumicino conta un numero di vittime maggiore di quello degli attentati di Peteano (31 maggio 1972, 3 morti) o alla questura di Milano (17 maggio 1973, 4 morti), così come delle stragi più recenti come quella di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti) o di via Palestro a Milano (27 luglio 1993, 5 morti).

Perché dunque questo ostinato silenzio che dura da trentasette anni?

Il 18 novembre 2010 a Roma, presso la libreria Enoarcano di via delle Paste 106, si è tenuta la presentazione del già citato libro di Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti: “Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero”. Forse questo è il primo lavoro serio e approfondito che tratta la vicenda, attraverso le testimonianze inedite di chi quella mattina visse in prima persona quell’orrenda tragedia: un passeggero dell’aereo della Pan Am sopravvissuto, alcuni degli agenti sequestrati, vigili del fuoco, addetti ai servizi aeroportuali, militari.

Alla presentazione, oltre agli autori e al sottoscritto, erano presenti Sandro Provvisionato, giornalista del settimanale Terra su Canale 5 e responsabile del sito Misteri d’Italia (www.misteriditalia.it), Rosario Priore, che oltre ad essersi occupato tra gli altri del caso Moro, della strage di Ustica, dell’attentato al Papa, fu anche giudice istruttore nel procedimento penale sulla strage di Fiumicino e Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera. Moderatore Fabio Mario Angelicchio del Tg di La7.

Il perché della mia presenza in qualità di relatore tra tanti illustri “addetti ai lavori” è presto detto.

Nel 2008, una domenica di fine settembre, mentre mi aggiravo tra le bancarelle di un mercatino, fui attratto da una pila di vecchie riviste. Per me una tentazione irresistibile. In cima al pacco spiccava il numero 1212/1213 di Epoca, quello datato 30 dicembre 1973. In copertina, a tutta pagina, la terribile foto che ritraeva il giovanissimo Antonio Zara disteso a terra, il viso deformato in un ultimo doloroso rantolo di morte. Accanto al corpo del finanziere agonizzante ecco sfilare, di fianco a un reattore col simbolo della Lufthansa, tre uomini tra cui il terrorista che aveva appena sparato alla schiena del ragazzo.

Comprai la rivista e lessi d’un fiato i servizi dedicati a quella ignobile strage di cui avevo, lo ammetto, solo un vago ricordo. L’articolo centrale era firmato da Marzio Bellacci, Raffaello Uboldi e Pietro Zullino: “Fiumicino. Perché è accaduto”.

La denuncia dell’inefficienza dei controlli all’aeroporto, dopo che numerose segnalazioni da parte dei servizi segreti di possibili attentati erano state di fatto ignorate, veniva più ampiamente sviluppata da Zullino nei successivi numeri di Epoca, quelli datati 13 gennaio e 20 gennaio 1974, che riuscii rapidamente a procurarmi nelle settimane che seguirono.

I titoli dei pezzi dell’inchiesta di Zullino sono già di per sé esplicativi: “Fiumicino. Un ufficiale accusa il governo”; “Abbiamo portato al giudice il documento su Fiumicino. Perché il capitano Corrado Narciso ha deciso di parlare”.

Mi resi conto molto presto che il motivo per cui avevo solo qualche labile ricordo di quella strage era dovuto al fatto che essa era stata semplicemente rimossa dall’inconscio collettivo della nostra nazione.


Come potei verificare, anche solo l’anno dopo, 1° anniversario della tragedia, sui quotidiani i cui archivi integrali oggi sono consultabili in rete (l’Unità, La Stampa), non v’era nessun richiamo, nessuna commemorazione.

Con stupore e amarezza constatai che la stessa Rete era quasi del tutto priva di notizie e dettagli su quanto era avvenuto a Fiumicino in quel lontano giorno di dicembre. Decisi così, alla vigilia del 35° anniversario, di pubblicare un articolo sul mio blog Cieli Limpidi, rievocando la nuda cronaca dell’attentato e le denunce di Epoca cadute nel vuoto.

Il giorno successivo, 17 dicembre 2008, solo un quotidiano, il Giornale, e un giornalista, Alessandro Frigerio, si occuparono di commemorare con un articolo quella tragedia caduta nell’oblio: “Quelle stragi palestinesi dimenticate dall’Italia”.

È proprio grazie a quella mia rievocazione su un blog e per la contemporanea mancanza quasi assoluta di altri che se ne siano occupati, che sono praticamente assurto al ruolo di “esperto” della vicenda.

A farmi capire che con quell’articolo sul blog avevo in qualche modo rotto un silenzio pressoché totale, furono alcuni commoventi ringraziamenti che ritrovai pochi giorni dopo tra i commenti al mio “post”. Erano testimonianze di alcuni parenti stretti delle vittime. Figli, fratelli, sorelle. Ammetto che per me fu una grande emozione e mi resi conto immediatamente di quanto fosse pesato per i famigliari delle vittime il silenzio ostinato, sgarbato, protrattosi per quasi quattro decenni.

Il lutto per essere completamente elaborato, ammesso che ciò sia possibile quando scompaiono senza una ragione persone care, necessita forse anche del ricordo di ciò che è accaduto per quanto possa risultare doloroso e straziante.

Ma perché lo Stato da un lato, ma anche la “libera” stampa dall’altro, hanno di fatto rimosso questa terribile strage?

Un’idea io me la sono fatta. Proverò a darne un breve compendio necessariamente sintetico.

Sebbene la magistratura sia riuscita a condannare solo gli esecutori materiali degli attentati di Peteano (1972), della questura di Milano (1973) e della stazione di Bologna (1980) – per quest’ultima, dal 2005, è in svolgimento una nuova inchiesta da parte della magistratura – tuttavia dallo sterminato insieme degli atti giudiziari accumulatisi negli oltre quarant’anni che ci dividono dalla strage di Piazza Fontana del 1969, e dalla vastissima documentazione raccolta da alcune commissioni parlamentari d’inchiesta (in particolare la Commissione Moro, 1979-1983, la Commissione P2, 1981-1984 e la Commissione stragi, 1988-2001) si è andata stratificando una ramificata e articolata interpretazione storiografica della drammatica stagione dello stragismo. Si è per così dire imposta una spiegazione di tutto quanto è accaduto, che piano piano si è diffusa così a fondo che ha finito per convincere un po’ chiunque, direi quasi a prescindere dalle idee politiche di ciascuno.

Questa tesi dominante, politically correct, sostiene che dietro alla stagione del terrore vi sia stato un sistema ben preciso teso a “destabilizzare per stabilizzare”, in altre parole una vera e propria “strategia della tensione” che, opportunamente modulata, ha permesso al potere politico di mantenere l’Italia nell’ambito del blocco occidentale, di fatto inibendo, grazie al clima creato con gli attentati, le pulsioni e le aspirazioni di vaste aree sociali.

Questo sistema era articolato su vari livelli e funzioni e vedeva il benestare di un blocco politico (leggasi certe componenti conservatrici della Democrazia cristiana) con la partecipazione congiunta di servizi segreti stranieri (leggasi Cia), servizi nostrani deviati, circoli oltranzisti atlantici non meglio precisati, massoneria (leggasi principalmente P2) e infine, a svolgere il lavoro sporco a suon di bombe, soprattutto la galassia dei gruppuscoli neofascisti, coadiuvati in certi casi dalla mafia, o da bande criminali organizzate.

Questa tesi, nella sua articolazione più generale, fa convergere in un unico grande affresco, ogni nefasto accadimento avvenuto in Italia addirittura a partire dalla strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) per arrivare alle stragi del 1992 (eccidi di Capaci e di via D’Amelio) e del 1993 (attentati di via Palestro a Milano e di via dei Georgofili a Firenze).

Una visione a mio avviso troppo semplicistica e, oserei dire, spericolata, che trascende con nonchalance persino il movente della Guerra Fredda visto che il muro di Berlino fu abbattuto nel novembre 1989

Ora, giusto per fare qualche esempio nel tentativo di motivare le mie perplessità, vorrei svolgere alcune considerazioni relativamente ai due più gravi eventi che aprirono e chiusero il “decennio lungo del secolo breve” e cioè gli anni ’70.

Credo che balzi agli occhi di chiunque il fatto che l’Italia del 1968-69 (quella per intenderci di Piazza Fontana) non può essere confrontata in nulla e per nulla con quella del 1980 (cioè l’Italia della strage alla stazione di Bologna). Le tensioni sociali del 1968 (la rivolta studentesca e l’autunno caldo nelle fabbriche) erano ormai un lontanissimo ricordo nell’ottobre 1980 quando a Torino marciarono i quarantamila quadri e maestranze contro lo sciopero degli operai della Fiat.

Il lungo e tormentato percorso teso ad avvicinare il Pci a responsabilità di governo, iniziato proprio sul finire degli anni ’60, era già definitivamente tramontato con la morte violenta di Aldo Moro (nel maggio 1978) e il “preambolo” democristiano del febbraio 1980 pose inesorabilmente fine a questa eventualità escludendo qualsiasi alleanza futura col Pci.

Non va dimenticato poi che nel 1969 ben tre paesi del sud Europa che facevano parte del blocco occidentale (Portogallo, Spagna e Grecia) erano governati da regimi di stampo fascista o da dittature militari e può essere verosimile che anche in Italia ci fossero entità che aspiravano ad una analoga soluzione. Ma nel 1980 l’Italia ed il mondo erano profondamente cambiati e nei tre citati paesi era tornata pienamente la democrazia mentre in contemporanea iniziava il lento ma inesorabile declino economico e politico del blocco socialista che porterà alla caduta del regime sovietico.

Insomma mi sento di dire che ridurre tutto allo schema della “strategia della tensione” sia un esercizio ardito di comoda semplificazione.

Ecco dunque che nello schema interpretativo appena delineato risulta particolarmente arduo inserire la strage di Fiumicino del 1973 (e anche quella del 27 dicembre 1985). Sono due tessere dalla “geometria” così scomoda che non si incastrano nel mosaico della strategia della tensione e risultano molto imbarazzanti da evocare per gli stessi sostenitori della “causa” nazionale palestinese. Così di quei tragici eventi non si è formata alcuna dolorosa memoria. Ha prevalso immediatamente un diffuso oblio, e si è creato un tabù simmetricamente rispettato dagli apparati dello Stato e dal sistema dell’informazione.

Lo Stato mirava ad occultare le mancate misure di sicurezza e quel vaso di Pandora della “diplomazia parallela”, ossia le sotterranee intese tra governi italiani e organizzazioni palestinesi (che presero le prime mosse molto probabilmente a partire dall’estate del 1972, dopo l’attentato all’oledotto Trieste-Ingolstadt del 4 agosto e la strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco di Baviera, 5-6 settembre). Intese talmente indicibili e inconfessabili che sono state protette tramite l’uso del segreto di Stato, tuttora vigente. Segreto di Stato spesso evocato del tutto a sproposito per quanto riguarda la strage di Bologna, ma sollevato invece, solo per fare alcuni esempi, nell’ambito di un procedimento penale istruito dell’ex giudice di Venezia Carlo Mastelloni (sul traffico d’armi tra Olp e Brigate rosse) e nella vicenda della scomparsa a Beirut, il 2 settembre 1980, dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo, anch’essi inevitabilmente precipitati nell’abisso dell’oblio.

Nel sistema dell’informazione si è distinto, per la sua assenza, il giornalismo “investigativo” o della “controinformazione” che poco o nulla ha indagato su questi arcani della recente storia della Repubblica, con la doverosa eccezione dell’inchiesta di Pietro Zullino, sopra ricordata.

Col senno di poi, suonano retoriche e vuote fino all’indignazione, le parole che il ministro dell’Interno dell’epoca inviò a un famigliare delle vittime:

«Sappiamo tutti però che ognuna di quelle morti ha costituito un dramma da ricordare, per il dolore che ha generato, per gli affetti che ha colpito, per gli impegni operosi e degni di onore – come quelli dei Suoi cari – che ha brutalmente interrotto. Li ricorderemo ad uno ad uno, per rinnovare sempre in noi la coscienza di dover fare ogni tentativo umanamente possibile per evitare il ripetersi di simili atroci episodi» (Paolo Emilio Taviani, lettera al signor Marcello De Angelis, 25 gennaio 1974).

Trentasette anni dopo possiamo dire che quell’impegno a rinnovare il ricordo, almeno delle vittime italiane, purtroppo non è stato mantenuto dallo Stato ma neppure dal mondo dell’informazione e ciò, per certi versi, è persino più grave e umiliante.

Pillola di saggezza

«C’è bisogno di aria fresca. Di aprire porte e finestre e recuperare la memoria. Rileggere la nostra Storia. Un Paese senza passato è condannato a non avere un futuro»(Beppe Grillo, Così è se vi pare, dal blog www.beppegrillo.it, 24 maggio 2009).